Barry Schwabsky, “Dipingere il Presente”

Testo nel catalogo della mostra Painting the Present, Barbara Behan Contemporary Art, Londra / Grossetti Annunciata Arte Contemporanea, Milano, Ottobre 2005

Ci sono delle cose talmente ovvie che non hanno quasi bisogno di essere dette, eppure ogni tanto diventa necessario dirle – perché, ad alcuni occhi, anche quello che è ovvio può in qualche modo non essere evidente. I dipinti di Roberto Rizzo forse non saranno indirizzati a quegli occhi perché in queste opere anche qualcosa di così inafferrabile  come il presente stesso diventa evidente; ma queste opere forti e fuori moda ci ricordano alcuni fatti forse trascurati, come l’attuale vitalità della pittura e in particolare – tra così tanti stili e modi possibili e validi di “fare arte contemporanea” – dell’astrazione.
Per astrazione non mi riferisco solo ad un’arte che rinuncia alla rappresentazione di figure umane e di paesaggi, di battaglie e di ciotole di frutta – di tutte le cose di cui l’arte figurativa si è servita così bene per così tanti secoli.
Neppure mi riferisco, anche se qui ci avviciniamo di più a quello che intendo, ad un’arte che prende come tema i propri elementi rappresentativi, siano questi di natura “libera” e fondamentalmente pre-linguistica come le pennellate; forme precise e identificabili del genere tipicamente definite “geometriche”, o persino il colore stesso come nelle opere dei pittori di monocromi. Ancora più essenziale per l’astrazione è l’idea di fondo dell’ascesi – di un’arte che, paradossalmente, si espande attraverso l’auto-limitazione, che procede tenendosi indietro.
Al suo meglio, questo tipo di arte riesce a catturare la ricchezza di tutte le possibilità che ha – almeno provvisoriamente – rifiutato. La sua densità sta lì, a parte ogni mero empirismo. Perciò, come il critico Giovanni Maria Accame ha osservato riguardo alle opere di Rizzo “Per quanto si pensi di costruire aggiungendo, è sempre più ciò che escludiamo che ci fa procedere nella nostra costruzione.”¹ Eppure, le esclusioni di Rizzo non hanno impedito alle sue opere di partecipare in un rapporto deciso con ognuno dei tre principali rami della pittura astratta, quello gestuale, quello costruttivo e quello monocromo, nonostante non rientri facilmente in nessuna di queste categorie.
I dipinti di Rizzo sono, innanzitutto, oggetti da osservare, non finestre attraverso cui guardare. Già la loro forma – invariabilmente Rizzo modifica il rettangolo convenzionale arrotondandogli i bordi, smussandolo e contenendo la sua energia al suo interno eliminando quelle frecce puntate verso l’esterno che sono gli angoli di un quadro – dice qualcosa del rispetto dell’artista per la tradizione e contemporaneamente della sua disponibilità a qualificarla, a ri-modellarla per così dire. Allo stesso tempo, la forza del dipinto non è solo investita nel suo carattere materiale, ma più significativamente nella sintesi percettuale e mentale che si forma sulla base di quel carattere materiale.
Questo diventa particolarmente evidente nei dittici di Rizzo, dove lo spazio che separa i due pannelli del dipinto diventa un fattore così potente. Eccezionalmente, in queste opere gli angoli interni non sono smussati; questa probabilmente è una delle ragioni per cui ogni parte del dittico mantiene una presa così forte sull’altra. È precisamente questa stretta relazione tra le due parti che conferisce all’asse centrale vuoto una forza uguale e contrastante.
La tensione-in-equilibrio che trova un’espressione così vivida nei dittici di Rizzo è, in molti sensi, la caratteristica saliente di tutte le sue opere. La dualità è fondamentale. Ogni dipinto, come è immediatamente evidente, consiste in un campo liscio e monocromo che lascia vedere delle leggere tracce delle pennellate con cui è stato creato, ed una forma rettilinea contenuta ottenuta con almeno due colori che sono stati spinti e tirati uno contro l’altro con una spatola per creare uno spazio più variegato e suggestivo che evoca la qualità gestuale dell’espressionismo astratto e dell’informale ma in una forma molto contenuta e in qualche modo meccanica, ricordando la modalità delle astrazioni di Gerhard Richter. Così questi due elementi differiscono nella consistenza, nel colore e nella tecnica con i quali sono stati prodotti. Ci sono anche delle differenze temporali e, si potrebbe dire, fisiologiche. In apparenza il campo monocromatico sembrerebbe essere stato lavorato lentamente, in maniera contemplata e deliberata, mentre la pittura più spessa della forma contenuta è stata applicata in un modo brusco, energico ed immediato.
Ci si potrebbe allora aspettare che la forma contenuta sia l’attore dinamico sul palcoscenico relativamente neutrale del campo monocromatico. La realtà non potrebbe essere più diversa. In ogni caso, la forma del dipinto, sempre differente, è in funzione dell’equilibrio in tensione tra il campo e la forma ivi contenuta. La forma non è mai una figura vista contro uno sfondo, o almeno non c’è mai la certezza che lo sia; il campo può sempre essere l’elemento dominante.
Questa sospensione (non abolizione) della distinzione figura/sfondo è palesemente un desideratum modernista; per esempio, sia Mondrian che Newman hanno perseguito qualcosa di simile, ognuno nel suo modo molto particolare. Un tale retaggio presenta Rizzo con una difficile doppia sfida: un’arte contemporanea che persegue un’estetica modernista rischia di non soddisfare né coloro che considerano il modernismo ormai sorpassato con problemi non più pertinenti, né coloro che, avendo una grande ammirazione per i maestri del modernismo, respingono tutti i tentativi contemporanei giudicandoli privi del rigore e della radicalità originale. Entrambi i tipi di spettatori dovrebbero essere mentalmente più aperti. Certi desiderata formali modernisti rimangono vitali anche se i sentimenti a cui devono rispondere sono profondamente cambiati. Oggi, comunque vadano le cose, nessuno può seriamente pretendere, come Barnett Newman diceva di se stesso e dei suoi compagni, che “si cominciava da zero, si dipingeva come se la pittura non fosse mai esistita.”²
Questa ambizione si basava su una vera e urgente necessità, ma cercare di scimmiottarla oggi sarebbe come negare l’esistenza di Newman. Rizzo è troppo onesto per questo. Perciò per tutto quello che ha chiaramente appreso da un pittore come Newman, ha imparato altrettanto dal lavoro più umile – ma a suo modo ugualmente rigoroso – di Giorgio Morandi, a cui Rizzo ha reso omaggio come pure ad altre fonti di ispirazione da Jacques-Louis David a Jim Jarmusch. I quadri di Rizzo sono belli, non “sublimi”; si presentano su scala domestica, non enfatica; trattano non tanto il melodramma della creazione quanto il “rumore” di fondo della continuità. Consci del passato, esprimono le sfumature del nostro presente.

 

1. Giovanni Maria Accame, “Roberto Rizzo, processi, non oggetti”, Roberto Rizzo (Milano: Galleria Grossetti Arte Contemporanea, 2002), p. 8.
2. Barnett Newman, “Jackson Pollock: An Artist’s Symposium: Part I”, Art News, aprile 1967, p. 29, citato da Yve-Alain Bois, Painting as Model (Cambridge: MIT Press, 1993), p. 187.