Giovanni Maria Accame, “Mutevoli confini”
Testo nel catalogo della mostra Mutevoli confini, Galleria Edieuropa, Roma, Marzo 2004
Le esperienze artistiche di questi ultimi decenni, come già è accaduto per le scienze, ci propongono una frequente mancanza di linearità nello sviluppo dei singoli fenomeni linguistici.
La pluralità dei procedimenti e la loro validità esulano da supposte attualità dei principi ispiratori o dei mezzi tecnici impiegati. Occorre una sensibilità che sappia comunicare in modo da carpire la nostra attenzione, da scavalcare le immagini già contenute negli archivi della memoria. L’opera che oggi ci sorprende e ci attrae è una forma alla quale non pensavamo, ma che sentiamo appartenerci non appena avvenuto il suo incontro.
Arrighi, Asdrubali, Caracciolo, de Marco, Morganti, Rizzo, Santucci sono tutti artisti dove lo scarto e lo slittamento del senso, intervengono nell’ostinazione della pittura, nel suo riproporsi, nel suo farsi testimone di una pluralità di significati che generano ulteriori significati. Anche per questo la nostra lettura, senza rinunciare ad essere critica, deve interrogare l’opera più che definirla, indicarne all’attenzione le aperture, percorrerne maggiormente le oscurità e accoglierne le incertezze.
Le categorie, le definizioni, le denominazioni, i concetti sono troppo spesso un modo di perdere contatto con le cose, per proiettarsi verso ipotetiche e del tutto teoriche verità.
L’esigenza prioritaria, oggi, sentita sopra tutto dagli artisti, non è di trovare nuove definizioni o ridefinizioni della pittura, ma di liberare le opere proprio da etichettature che si susseguono a getto continuo, alla ricerca di novità concepite secondo una logora idea del nuovo.
Naturalmente non penso a una visione illusoriamente libera dai condizionamenti che tutti abbiamo, ma a una lettura dove l’interpretazione sia ascolto a tutto campo. Dove la multidimensionalità dell’arte possa liberamente esprimere e comunicare il movimento e l’incontro delle sue idee. Sarà nostro compito farne un’esperienza vera e non solo un’acquisizione conoscitiva di storia dell’arte.
Le opere di questi artisti sembrano acquistare una maggiore forza quando le pensiamo e il nostro pensiero diviene più concreto calandosi nella fisicità del lavoro. Qui si possono cogliere delle componenti che costituiscono uno stacco, una differenza, un’imprevista discrepanza da quanto già acquisito e atteso. Più il lavoro dell’artista è originale e più dovremo considerarlo per la sua non appartenenza, piuttosto che per la sua appartenenza a una categoria definita.
Il tentativo di definire precocemente quanto è fatto dall’artista porta a una circoscrizione che blocca sul nascere quella serie di stimolazioni, fatte di accenni e di ipotesi, che sono tra i maggiori pregi di un nuovo lavoro.
Se guardiamo gli artisti che figurano in queste pagine, ci accorgiamo come la maggiore qualità che si possa trovare nelle loro opere è la possibilità. Una possibilità densa di storia, maturata nel corso del Novecento, da Malevich e Mondrian a Ryman e Knoebel, che ora può liberamente essere agita, non legata a continuità di stile ma dalle indeterminate elaborazioni della memoria.
È nei margini della sospensione e dell’incertezza che si possono formulare libere ipotesi per il futuro e riletture che cambiano il senso del passato. Picabia diceva scherzosamente che «la nostra testa è tonda per permettere al pensiero di cambiare direzione». Così le attuali strategie conoscitive dell’arte affermano la pluralità delle direzioni e il loro continuo incrociarsi.
L’adozione di tecniche tradizionali, di tecniche più sperimentali o di vere e proprie contaminazioni tra linguaggi diversi sono comunque tutte tese entro una dimensione ipotetica, dove è lo scorrimento, e non la fissazione, il carattere dominante del lavoro. Dove i confini sono mutevoli e ogni giorno si estendono in una differente dimensione.