Giovanni Maria Accame, “Le figure mancanti”
Testo nel catalogo della mostra Le figure mancanti, Fondazione Palazzo Bricherasio, Torino, Edizioni Aspasia, Febbraio 2003
La realtà che ci circonda e della quale facciamo parte, è composta molto più da situazioni e accadimenti invisibili che non da quel mondo degli oggetti da noi banalmente considerato come l’unico effettivo. Come già notava Schopenhauer: “il pensiero trasforma a suo vantaggio il mondo in “cose”, in un che di simile a lui stesso.” Nella nostra concezione della realtà vi sono dunque delle figure mancanti, l’universo dei fenomeni è molto più vasto di quanto pensiamo, di quanto riusciamo a percepire. A questo riguardo, non bisogna dimenticare alcuni limiti concettuali della nostra cultura occidentale che, ad esempio, giudica il vuoto come estrema assenza, negazione e impossibilità di ogni presenza. Mentre per la cultura orientale il vuoto ha un’identità positiva e più che un concetto è un’esperienza. È il luogo di tutti gli accadimenti, ha una funzione costitutiva per ogni cosa e dunque un’apertura sul futuro, non la sua negazione.
La pittura e la scultura che non si avvalgono della rappresentazione di ciò che è manifesto, non per questo sono prive di rapporti con il mondo sensibile. Molti pittori non figurativi provano un vivo interesse per le forme e i colori degli oggetti, oggetti che non vedremo mai raffigurati sulle tele, ma certo molto spesso presenti nelle loro caratteristiche non oggettuali. Non solo perché lo spazio e la luce che circondano le cose ne sono anche parte, ma perché ogni fenomeno percepibile ha una vasta componente di consistenza avvertibile non dai sensi ma dalla memoria, dall’attesa, dalla condizione psicologica. La stessa memoria, come si sa, elabora il dato iniziale apportando non solo modificazioni all’oggetto memorizzato, ma creando su quello una serie di echi indefiniti che divengono territorio fertile per l’immaginazione. In realtà tutte le figure indeterminate, sia quelle che ci circondano, sia quelle che abitano la nostra mente, hanno una causa iniziale della quale quasi sempre si smarrisce l’origine. Anche per questo la nostra lettura, senza rinunciare a essere critica, deve interrogare l’opera più che definirla, percorrerne maggiormente le oscurità e accoglierne le incertezze. Sopra tutto salvare e indicare all’attenzione le aperture, i varchi originati dall’opera e la distanza che separa il nostro discorso dalla sua costituzione oggettuale, percepibile dai sensi. E proprio ai sensi tornare per un difficile, ma fondamentale ascolto.
Gli artisti invitati in questa occasione, tutti con differenti caratteristiche e alcuni anche concettualmente molto distanti nelle determinazioni del loro lavoro, hanno però in comune almeno due fattori originari: la scelta aniconica e l’atteggiamento linguisticamente riflessivo. Una riflessione che non impedisce né l’indeterminazione di soluzioni pittoriche affidate ad azioni gestuali, né l’adozione di procedimenti intuitivi. La riflessione alla quale mi riferisco è quella compiuta dalla pittura sulla pittura, che l’artista attua dall’interno, nella consapevolezza dei processi adottati, indipendentemente dalle loro caratteristiche. Alcuni di questi artisti come Gastini, Griffa, Morales, Olivieri, Pinelli, sono stati tra i principali protagonisti, dalla fine degli anni sessanta e negli anni settanta, della pittura analitica, una tendenza di respiro internazionale diffusa in molti paesi.
Un’appartenenza che, come sempre accade in queste circostanze, portava le letture critiche ad accentuare delle affinità d’intenti e di pratiche solo in pochi casi realmente coincidenti. L’adozione di un effettivo sistema analitico fu presente in pochi pittori e per un limitato periodo. Era invece certamente diffusa, tra un consistente numero di artisti, una precisa coscienza dei processi che presiedono il fare pittura.
Quell’orientamento riflessivo, appunto, che non solo è rimasto in questi pittori nel trascorrere degli anni e nell’evolversi delle vicende artistiche, ma è divenuto un elemento irrinunciabile anche per le generazioni successive che si riconoscono nell’esperienza aniconica. Sarebbe però un errore dedurre un collegamento diretto e conseguente tra generazioni. Direi anzi che, sopra tutto pensando agli artisti apparsi negli ultimi due decenni del secolo scorso, le differenze siano marcate e vadano oltre a discordanze formali, toccando invece più sostanziali atteggiamenti relativi al proprio lavoro. Arrighi, Asdrubali, Caracciolo, de Marco, Iacchetti, Rizzo, Tirelli, non fanno parte di nessuna tendenza codificata e non si sentono legati ad alcuna corrente programmaticamente o concettualmente denotata. Tra loro, è opportuno ricordarlo, vi sono già rappresentate altre due generazioni, essendoci in alcuni casi dieci o addirittura vent’anni di differenza. Ciò nonostante hanno molti punti in comune, così come ne hanno con la generazione che li ha preceduti. A loro, come a noi, devono però interessare più le differenze che le analogie. La loro stessa scelta di porsi di fronte a una tela, è il segno di una convinzione profonda sull’inesauribile possibilità della pittura di affermare la differenza.
È sulle differenze che occorre iniziare a osservare questi artisti e le loro opere. Le affinità, le somiglianze, verranno dopo. Ma non è facile, come si potrebbe supporre, seguire questo principio. Tutta la psicologia della percezione, a partire dalla Gestalt, ci riferisce sulla nostra tendenza più immediata nel collegare le forme, piuttosto che nell’isolarle analiticamente. Seguendo però l’accorgimento di mantenere un punto di vista che distingue, invece di accorpare, si riesce molto più agevolmente a scoprire, effettivamente, in ogni artista un mondo. Il rischio dell’avvicinamento per categorie, per gruppi predeterminati, è di costringere tante diverse esperienze in un’unica lettura. Cento mondi in uno.
L’identità stessa di queste esperienze risiede nella loro diversità. Nel caso di Giorgio Griffa, la differenza che si produce nella ripetizione di un segno, alla fine degli anni sessanta, è stata tra le ragioni originarie di un lavoro concettualmente connotato ma, al tempo stesso, teso all’affermazione delle azioni elementari del dipingere. La ripetizione dei gesti e dei segni, determina la differenza che è già contenuta nella loro iterazione. Anche il tempo, legato alla successione spaziale con la quale i segni seguono i segni sulla superficie della tela, diviene contenitore di accadimenti distinti l’uno dall’altro. Tempo e spazio che tutt’ora, nei lavori di questi ultimi anni, si affermano in quella dimensione del frammento, dell’incompiuto, tanto cara allo stesso Griffa. Una frammentazione che fa coincidere la voluta incompiutezza d’ogni singola opera, con la continuità di una concezione operativa per frammenti.
Di tutt’altro genere di frammenti è invece ricco il lavoro di Marco Gastini, la cui iniziale analiticità, già nel ’69, prediligeva grumi di piombo e antimonio, o pittura densa di metallo applicata su lastre di plexiglas. In seguito la pittura è divenuta l’elemento di connessione tra materiali diversi. Un luogo dove l’energia portata nell’opera dai frammenti esterni, si rafforza e si espande. Ed è proprio il concetto di energia e la sua concreta attuazione che, dagli anni settanta a oggi, è divenuto sempre più uno dei segni distintivi di Gastini. Una forza dinamica che, non solo ha straordinariamente sospinto la pittura oltre i propri confini ma, al tempo stesso, ha tradotto in fatti di pittura un universo di materiali, di spazi, di connessioni, tutti disarticolati e ora, in queste opere, ricongiunti in un’originaria alleanza fatta di fisicità, di sensazioni concrete, di pittura come accadimento della vita.
Per Pino Pinelli la frammentazione ha coinciso con l’uscita dal quadro, con la rottura dei confini imposti dall’unitarietà della superficie e la conseguente disseminazione sulla parete. Un rifiuto del quadro senza pentimenti e senza ritorno ma, nel medesimo tempo, una tenace affermazione della pittura stessa. Pittura è infatti il titolo ricorrente di tutte le opere di questo artista. Dalla minimalità che distingueva gli elementi degli anni settanta, il lavoro è progressivamente approdato a una fisicità densa di materia e di lavoro manuale. La monocromia e la strutturazione a sequenze, trattengono però questi sviluppi entro i termini di un’operazione linguisticamente controllata e attenta a ogni slittamento più espressivamente marcato. L’idea della frammentazione e la sua stessa configurazione, permettono a Pinelli di concentrare o estendere l’articolazione delle opere con totale libertà, senza che per questo venga mai meno il concetto fondante del lavoro, il suo essere pittura e struttura, corpo plastico e figura astratta.
Tra i protagonisti di una pittura che, dall’inizio degli anni settanta, hanno fatto della riflessione una costante, volendo richiamare l’attenzione su ciò che all’attenzione sfugge, Carmengloria Morales e Claudio Olivieri portano sulla tela considerazioni e tensioni molto diverse, ma egualmente mirate a scavare in quella parte di indeterminato che la pittura racchiude al proprio interno. Rothko diceva di come un quadro sia una rivelazione miracolosa e l’aspetto della rivelazione interessa sicuramente questi artisti. Quanto viene rivelato nelle loro opere non è la rappresentazione di qualche cosa che ha colpito l’immaginazione, ma il risultato di un tenace inseguimento a un mondo di figure che sono presenti ma non appaiono. Riuscire a strapparle a uno spazio che le trattiene e renderle visibili.
Quando nel 1971 Carmengloria Morales scelse di svolgere il proprio lavoro partendo da una figura storica come il dittico, scelse anche, essenzialmente, di agire in una struttura critica entro cui realizzare e leggere la propria pittura. A quella figura dello spazio pittorico se ne sono aggiunte altre nel tempo, il tondo in particolare. La tela bianca che ha sempre contraddistinto la parte destra dei suoi dittici, contribuisce a rafforzare la componente concettuale presente in queste opere, senza con ciò impedire la potenza del gesto pittorico. Un gesto che è, in effetti, reso più intenso dalla razionalità e determinazione da cui proviene. Un aspetto questo, della ragione e dell’azzardo, fondamentale in Morales, confermato anche nelle opere degli ultimi anni. La forza, l’emozione, il sentimento della pittura, testimoniati da quelle larghe tracce di pennello che ostinatamente si accostano e sovrappongono in una stratificazione di acrilico, pigmenti, metalli, rispondono a un’intenzionalità, a una ricerca d’assoluto. C’è un metodo anche per affrontare l’esperienza di quanto si trova oltre ogni metodo.
Ho sempre pensato alla pittura di Olivieri come al puro manifestarsi del colore e della luce percepiti nel movimento che li unisce. Un perenne accadere e rinnovarsi di un fenomeno che ha molta attinenza con quello scavo profondo, all’interno della superficie, che ricordavo più sopra. Olivieri, infatti, agisce sulla tela dando progressivamente respiro a immagini che nascono senza modello. Si concretizza l’indeterminato, quella risonanza intima ed esclusiva della pittura che, quanto più viene svelata, tanto più dimostra la propria inesauribile estensione.
Un’estensione che Olivieri stesso ha percorso dall’oscurità profonda, ostinata, dei suoi dipinti fino alla metà degli anni ottanta, alla luminosità che si è affermata e consolidata nei successivi anni fino a oggi. Una luce, sopra tutto, portatrice di un differente e nuovo affermarsi dello spazio. Più strutturato, presente e splendente, non invita, come nel passato, a insinuarsi nell’impenetrabilità delle ombre, ma ci coinvolge avanzando, occupando lo spazio e immergendoci in un corpo di luce che, come una cascata, continuamente scorre e si rinnova.
Per gli artisti che hanno iniziato negli anni ottanta, il problema dell’analiticità è una realtà recente, ma già trascorsa e affrontata da una generazione precedente. Gli anni ottanta sono anzi caratterizzati, in molti casi, da una rivisitazione di atmosfere meno minimaliste e molto più aperte a impulsi fugaci. Anche i modelli di riferimento, i maestri stimati da cui trarre indicazioni e suggerimenti, non rispondono più a logiche di stretta coerenza, ma possono comprendere individualità e concezioni distanti e contrastanti.
Non a caso Paolo Iacchetti, che compie le prime esperienze significative in relativa prossimità cronologica alle scelte radicali degli anni settanta, ha certo tenuto conto della lezione autoriflessiva della pittura, ma poi ha sicuramente guardato con maggiore interesse a una figura problematica come Clifford Still, piuttosto che al padre riconosciuto dei radicalismi in pittura Ad Reinhardt. Anche nelle opere attuali, così rigorosamente tenute sul filo di una delicata sfida percettiva, intervengono delle componenti emotive, direi anche psicologiche. Iacchetti stesso considera le sue opere più come soggetti che come oggetti. Individualità della pittura che testimoniano l’idea di processo, di movimento incessante della realtà. Una visione dell’uomo, anche ovviamente dell’uomo artista, che corrisponde più a un fare che a un essere. Una concezione molto corrispondente al concreto tessuto pittorico e cromatico di queste tele, così dense di un fermento e una mobilità molecolare, da suggerire quasi lo svolgimento di una vita propria.
Gianni Asdrubali ha inizialmente compiuto una riflessione che ha notevoli analogie con il pensiero orientale, anche se la sua pittura, come del resto lui stesso, non manifestano alcuna effettiva relazione con quella cultura. Asdrubali ha compreso le potenzialità del vuoto, il suo essere, al tempo stesso, spazio di conoscenza e funzione costitutiva. Ha concepito il vuoto, anche la superficie vuota, come un’assenza determinata e determinante. Questo è esattamente quanto insegna il taoismo. La pittura di Asdrubali tende ad affermare il ruolo generativo del vuoto e mostrarne le immagini possibili. Quelle figure mancanti alla nostra normale percezione, ma così presenti attorno e dentro di noi. L’organicità che distingue la struttura di questi corpi dinamici, trae origine dal confronto tra l’energia indeterminata del vuoto e l’azione determinata che l’artista conduce con la pittura. Un’azione che non è solo quella del fare, ma del pensare, del sentire l’intensità di quel vuoto che continuamente attende.
La struttura reticolare con cui Roberto Caracciolo organizza la superficie, è uno dei modi possibili di fissare alcune regole per avere poi mano e pensiero più liberi. Può essere anche un modo per affrontare il vuoto. Disporre una rete che permette un dialogo. Certo la griglia di Caracciolo non chiude la superficie, ne apre le maglie. È quasi come entrare direttamente nelle trame della tela e trovarvi la pittura. Muovendosi sull’orizzontale e la verticale, la struttura del dipinto ha in sé anche le diverse strutture del supporto. Penso che nello stendere il colore, nell’avanzare del lavoro, l’artista non si senta in rapporto solo con la superficie, ma che in qualche modo avverta la particolare spazialità che viene a formarsi nelle sue opere. La profondità che questa stessa pittura suggerisce in diversi modi, è anche rintracciabile nel sovrapporsi dei piani, che diventano spazi, luoghi entro cui l’attenzione che Caracciolo impiega nell’esecuzione della sua pittura, permette di scoprire ciò che all’attenzione sfugge e continuamente manca.
Nei rilievi che Massimo Arrighi, con sempre maggiore insistenza e consistenza, fa emergere dalle superfici delle proprie tele, si racchiude un particolare nodo problematico. Il rilievo non si muove sulla tela, non percorre traiettorie, il rilievo, anche tecnicamente, cresce e si ispessisce come proiezione della superficie. Dinamici o più statici, i rilievi sono una proiezione di quella profondità del piano che, dopo le premesse delle avanguardie storiche, non ha cessato di sollecitare l’interesse di diversi artisti contemporanei. Nelle opere ultime, sopra tutto in quelle bianche, si avverte distintamente una presenza silenziosa che preme dall’interno. Presenza niente affatto misteriosa, ma molto più concretamente psicologica, emotiva e ideativa. Realtà invisibili, che hanno forme e consistenze indeterminate e alle quali Arrighi si rivolge con un particolare ascolto.
Scansioni grigie o bianche solo apparentemente distanti e distaccate, immerse invece in un’atmosfera temporale di sospensione e d’inquieta attesa.
Luoghi del pensiero, architetture abitate dall’idea, una pittura, quella di Marco Tirelli, che si costruisce attorno alla memoria e, appunto, al suo farsi pensiero.
Memoria di spazi effettivi, di ambienti dove sono risuonati passi e che ora, filtrati da un ricordo severo, aderiscono alla superficie come enigmatiche apparizioni. C’è un aspetto virtuale che interviene nel passaggio dove il trasferimento si fa trasformazione e dove, per più aspetti, l’immagine diviene testimonianza di un’assenza. Se andiamo oltre all’ordine e alla raffinatezza di queste arcane strutture, ci rendiamo conto che sono assai più allusive che non descrittive. Da qui nasce tutto il diverso ordine di valori che assumono gli spazi dipinti, la cui funzione prioritaria è quella di affacciarsi sul confine dei fenomeni. Interno esterno, ombra luce, reale virtuale, chiarezza mistero, tutto questo proveniente e rientrante verso quello sfondo originario di tutte le cose che prende corpo nelle opere di Tirelli. Profondità di una scena che non possiamo definire né piena né vuota, presupposto per il prodursi d’ogni possibile figura, ma già interamente figura essa stessa.
Quanto va facendo Roberto Rizzo da alcuni anni, con intelligenza e determinazione, ha sempre più messo a fuoco il suo interesse per i confronti, le contraddizioni, le situazioni che rivelano i confini e ne traggono energia. Nelle opere ultime emerge con chiarezza il dialogo tra elaborazioni differenti della pittura ma, anche, il richiamo al rapporto tra la pittura e il mondo. Tra quadro e spazio che lo contiene. Spazio fenomenico, immediatamente riferito al luogo e spazio storico, con la memoria cioè di quelle vicende dell’arte che più direttamente precedono e riguardano queste opere. La suggestione emotiva di una pittura dove gesto e materia rivelano la loro carica esistenziale, è inserita in una concezione critica del lavoro. Le stesure monocrome, l’arrotondamento degli angoli, l’interruzione del supporto e la conseguente frattura della superficie, sono tutti strumenti per rendere concreto l’oggetto quadro, per contenerlo. Ma come sempre accade quando si cercano e si percorrono i confini, anche nelle opere di Rizzo, questi cessano di separare e di porsi come limiti per divenire, al contrario, occasioni di ampliamento, di connessione, di ulteriore sollecitazione ed esperienza.
La superficie della tela, per Flavio de Marco, è un punto su cui converge e si diffonde una rete infinita di connessioni. Il titolo Paesaggio, dato a questa serie di opere, da un lato denuncia l’impossibilità di potere avere oggi una visione del tutto naturale, dall’altro guarda con attenzione al formarsi delle innumerevoli categorie e sequenze di paesaggi da cui siamo circondati e frastornati. Uno dei possibili orizzonti di contaminazioni entro cui si muove il lavoro di de Marco è quello che va dal rigore concettuale e dalla profonda oscurità cromatica di Ad Reinhardt, al software informatico e alla sua organizzazione delle immagini. Il paesaggio virtuale che ci avvolge e ci coinvolge quotidianamente è qui condotto a un momento di verifica differente. Lo strumento della pittura diviene, in questo caso, un passaggio imprevisto per il sistema coordinato delle immagini e del pensiero elettronici. La precisione e la velocità della percezione che prevalgono nell’elaborazione tecnologica delle immagini, prendono contatto con l’immaginazione. Un’immaginazione interrogante, dubitativa, che si pone come memoria per ricordare che la rappresentazione è sempre provvisoria e incompleta, che il visibile non è che l’ombra dell’invisibile.
Gli artisti che qui ho riunito e molti altri assieme a loro, ci ricordano tra l’altro come la pura identità di qualunque categoria di fenomeni, sia sempre “astratta”, non coincide e non termina cioè con la sua immagine percepibile. In questo senso, l’identità nostra e del mondo che ci sta attorno, si sottrae continuamente alle regole della visibilità. Una delle grandi funzione dell’arte risiede proprio nell’estendere a livello globale l’accesso alle singole identità, senza con questo distruggerne l’individualità. Gli artisti aniconici, come quelli presenti su questo volume, ampliano immensamente i confini della realtà percepita, proprio mentre ne denunciano i limiti di assolutezza. “Una realtà assoluta vale quanto un quadrato rotondo” diceva Husserl. Le figure astratte non sono però la rappresentazione di accadimenti non visibili, sono esse stesse un fatto concreto, certo un fatto che proviene da quelle regioni del reale che meno ci appare. E quando appare, qualunque cosa sia, ci appare differentemente. Sartre ha scritto acutamente e quasi con rammarico, “posso cogliere il verde dell’erba che vedo, ma non vedo il verde quale appare a un altro”.
L’universo delle immagini in continua formazione, transito, attesa di apparire, è dunque un vero e proprio mondo parallelo che ci affianca e interagisce con noi, ma del quale rare volte prendiamo coscienza. Capire a quale categoria di immagini appartengono le figure che incontriamo quotidianamente, significa anche conoscere meglio quel luogo psicofisico e inafferrabile in cui è immersa la nostra intima identità. La città, la casa, gli ambienti di lavoro, le cose che guardiamo, sono frammenti di un mosaico che ci comprende, ma del quale non vedremo mai né l’inizio né la fine. In questo mosaico, una vera e propria forma dell’informe, priva di contorni ma consistente e per noi fondamentale, questi artisti scavano nella parte di vuoto che è presente in ogni ordine di cose. Da quel vuoto determinato e funzionale all’essere, si avvertono delle assenze che contengono esperienze a noi necessarie. Energie e valori che è possibile cogliere quando ci accorgiamo delle figure mancanti, quando avvertiamo la loro presenza come modificazione di presenza.