Angela Madesani, “Siamo tutti figli di N.N.?”
Testo nel catalogo della mostra Periscopio 2002, Galleria Gruppo Credito Valtellinese, Milano, Ottobre 2002
Nella prima edizione di “Periscopio”, nel 1997, ho compilato in catalogo un breve saggio intitolato La risposta silente sul valore della memoria nel lavoro di alcuni giovani artisti contemporanei, per l’appunto invitati alla mostra. Oggi, a qualche anno di distanza, mi interessa analizzare un aspetto contrario a quello della memoria: l’oblio. L’esame non è esplicitamente rivolto agli artisti presenti in mostra. L’interesse è nei confronti di una situazione comune dell’arte contemporanea: l’oblio delle proprie radici artistiche e poetiche. Oblio in tal senso non è certo solo degli artisti, ma, a maggior ragione, dei critici, dei galleristi, del cosiddetto sistema dell’arte. L’oblio non è una banalità, una dimenticanza dovuta, forse, a distrazione. Si tratta di qualcosa di diverso, più complesso, più eterogeneo.
Se è normale, da parte degli studiosi di storia dell’arte, cercare e trovare le radici delle opere, di Cimabue in Giotto, ma anche di Paul Cézanne in Giorgio Morandi o le tracce della formazione lombarda nell’opera di Caravaggio – basti pensare in tal senso alle ricerche e ai percorsi ricreati da uno dei più grandi maestri della storia dell’arte italiana, Roberto Longhi – così non avviene per l’arte contemporanea, che vive, il più delle volte, in un pianeta appartato dal resto della storia dell’arte, sospesa in una dimensione che si potrebbe chiamare a-storica.
Sempre in quel saggio facevo riferimento a un lavoro di Massimo Kaufmann, una grande immagine, faticosa a vedersi, ottenuta con l’emulsione fotografica, che rappresenta un paesaggio urbano. È un lavoro sulla memoria, con un preciso riferimento a una delle malattie più terribili da cui un uomo possa essere colpito, il morbo di Alzheimer. “Una malattia che a poco a poco spoglia l’individuo di tutto il suo bagaglio mnemonico per farlo regredire, nella maggior parte dei casi, all’età infantile.” L’immagine faceva riferimento alla società occidentale contemporanea, dimentica della sua storia.
Il riferimento può essere tranquillamente adattato all’odierno momento della storia dell’arte occidentale¹.
L’oblio, la mancanza di collegamenti, la dimenticanza, la negazione più o meno conscia delle proprie radici storiche è un fenomeno quasi normale dei nostri anni.
Il Novecento è stato su tutti i versanti un secolo complesso. Un secolo di grandi mutamenti tecnici, scientifici e anche culturali. Il secolo scorso ha abbattuto il tempo arrivando al tempo reale, alla possibilità di trasmettere un’immagine dall’Afghanistan agli Stati Uniti in pochi secondi. Sono mutati i meccanismi, i mezzi.
Anche storicamente è stato un secolo assai eterogeneo dalla prima guerra mondiale, in parte ancora all’arma bianca, alle guerre chimiche dei giorni nostri, in cui tutto è troppo veloce per essere osservato con la dovuta attenzione.
La storia dell’arte ha subito nel Novecento numerose rivoluzioni in odore di avanguardia e non solo. Forse il mutamento più significativo è stato quello apportato da Marcel Duchamp, di cui buona parte dell’arte di questo secolo è figlia. Qui molte cose sarebbero da dire: Duchamp è stata una delle figure cardine della storia dell’arte, ma in molti si sono approfittati in modo inglorioso del suo verbo utilizzandolo in modo banale e tutto sommato inutile. Duchamp ha invertito alcuni rapporti, ha portato, solo per fare un esempio, un orinatoio nel museo e l’ha fatto diventare un’opera d’arte. Su questa scia molti hanno cercato di fare la stessa cosa, ma l’originalità, l’intelligenza, la sottigliezza dell’operazione duchampiana è venuta a cadere². Questa mia non è una posizione antiavanguardistica, tutt’altro, il mio è un tentativo di preservare l’originalità di certe operazioni e di mantenerne intatto il senso. Il più delle volte il plagio oltre a non avere originalità riesce a impoverire anche l’opera plagiata, che appare improvvisamente un semplice anello di una catena di molte opere uguali tra loro.
Tornando, dunque, al problema della memoria e dell’oblio: la nostra è un’epoca artistica gravemente affetta dal morbo di Alzheimer. Non solo in senso prettamente storico. La sindrome della dimenticanza affligge molti anche nei confronti dei debiti contratti con chi è venuto prima. Dovrebbe essere chiaro che porsi all’interno di un cammino non significa essere poco originali, non significa produrre opere prive di significato, bensì operare una ricerca con la consapevolezza di quello che ci ha preceduti.
L’oblio, come già detto, è un problema portante della nostra epoca. Scrive Harald Weinrich: “Quello che per Nietzsche era ancora un problema strettamente specifico di storici e filologi, e cioè il carico mnemonico sempre crescente della storia del Novecento diventa un problema di tutta la società. Si tratta del problema dell’inarrestabile crescita della quantità di dati che vengono offerti in informazione e di cui si vuole prendere conoscenza. La società dell’informazione, fino a poco tempo fa tanto desiderata, che abbraccia e collega globalmente tutte le manifestazioni di vita, è ormai realizzata in maniera così compiuta che il sogno della sua realizzazione è già diventato un incubo. Dove si può trovare allora in quest’epoca quella ‘considerazione inattuale’ nella quale, con grande chiaroveggenza, venga steso un bilancio dell’utilità e del danno dell’informazione per la vita, talché questa possa venire eventualmente mutata gettando via con un atto di coraggio l’informazione superflua?”³.
Per alcuni versi l’informazione è molta, troppa. Troppe le notizie, troppe le immagini che i media ci veicolano ogni giorno, incessantemente.
Informazioni a rotta di collo, tuttavia, non significano un aumento del sapere. In ambito storico-artistico a esempio ancora molti sono i veli che coprono interi momenti del passato. La stagione del concettuale in Italia e in generale tutto quello che riguarda gli anni Settanta nel nostro paese – con la sola eccezione dell’arte povera – vivono da anni in una sorta di oblio più o meno voluto più o meno accettato da quello che potremmo comodamente definire il sistema dell’arte. Anche molti di coloro che di quella stagione hanno fatto parte sembrano essersene dimenticati. Forse vedere le cose troppo da vicino ne impedisce un’analisi corretta. Su questo tema ha realizzato un lavoro molto interessante Alberto Zanazzo al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea di Roma.
Sarebbe significativo scorgere in quel momento gli inizi di numerose operazioni dell’oggi. In fondo non sono che passati trent’anni.
Quale la spiegazione che si può riscontrare in un atteggiamento di questo genere? Forse impossibile da fornire, comunque complessa e eterogenea. Da un lato, appunto, la possibile mancanza di informazioni. In effetti pochi sono gli studi importanti dedicati nei nostri anni a quel periodo – ma ripeto si tratta solo di un esempio. In realtà sono molti i cataloghi di mostre personali e collettive che in quegli anni sono stati prodotti. La ricezione degli stessi non è sempre facile. Le biblioteche sono scarsamente fornite, così bisognerebbe andare direttamente dagli artisti o consultare i materiali delle gallerie, poche, ancora presenti che in quegli anni erano già attive. La via è ostica, non praticabile per tutti.
Pensare oggi alla possibilità di non informazione appare quantomeno curioso, se non paradossale. “Guardando a ritroso negli anni Cinquanta dobbiamo però concedere a Heinrich Böll e alla sua parabola⁴ notevoli doti di chiaroveggenza nei confronti dei problemi attuali dell’informazione. È infatti divenuto evidente da allora che viviamo in una società iperinformata, dove l’intelligenza superiore non consiste più nel procurarsi le informazioni – cosa che ogni ragazzo o ragazza può fare tramite Internet – bensì nel liberarsi dalle informazioni – cosa per cui non esiste in Internet alcun programma. Anche in questo caso si richiede naturalmente un’arte dell’oblio. Esamineremo il problema illustrandolo in un campo al quale il filosofo Hermann Lübbe ha prestato per primo la sua attenzione critica: il campo dell’archiviazione.”⁵
Più e più volte gli artisti non conoscono ciò che li ha preceduti e i critici – me compresa – soffrono di inspiegabili amnesie. Forse la nostra situazione è simile a quella di un verso di una poesia di Hans Magnus Enzensberger: “Salvato in memoria, ovvero dimenticato”. Già Vincenzo Agnetti, uno dei più interessanti concettuali italiani aveva intitolato un suo lavoro Libro dimenticato a memoria.
Non esistono, in realtà regole del sapere e della ricerca. Ogni anno in quasi tutti i campi ci piovono addosso migliaia di pubblicazioni più o meno utili. Harald Weinrich per salvarsi da questa pioggia auspica l’oblivionismo scientifico per cui cita un caso esemplare quello dei due chimici Watson e Crick, che nel 1953 hanno pubblicato la loro epocale scoperta del DNA in un contributo dal titolo conciso di Molecular Structure of Nucleid Acids in una pagina stampata, con sei note, della prestigiosa rivista “Nature”. Scoperta per la quale hanno ricevuto subito dopo il premio Nobel. In base a questa pubblicazione Weinrich sostiene che nel loro caso l’oblivionismo scientifico ha funzionato in questo modo:
“Ciò che è pubblicato in forma diversa da un articolo in una rivista scientifica – forget it.
“Ciò che non è pubblicato in una delle prestigiose riviste x, y, z – forget it.
“Ciò che è stato pubblicato da più di cinque anni circa – forget it”⁶.
Tutto questo, tuttavia, può riguardare solo ambiti scientifici. Per la storia in generale e per la storia dell’arte in particolare una serie di regole di questo tipo sarebbero inaccettabili. C’è bisogno di conoscere quanto più possibile del passato. C’è bisogno di studio, di conoscenza di fatti, opere, immagini, storia e storie.
Non conoscere è un limite gravissimo. Porsi sulla scia di qualcun altro, continuarne la ricerca non è un limite, tutt’altro. La consapevolezza è fondamentale.
Così Weinrich: “Le scienze umane e sociali non si possono praticare senza avere un’esperienza storica che faccia da valvola di sicurezza contro ogni genere di eventuali spiacevoli sorprese. Queste scienze infatti devono sempre venire a patti con la memoria, pur senza ricadere nel memorialismo delle scienze antiche”⁷.
Pena la banalizzazione del tutto.
Per l’arte occorre arginare il limite del discorso, altrimenti non ci si rientra. La memoria di ciò che è stato è fondamentale per porsi in maniera costruttiva nel presente. Costruire un cammino è opportuno al fine di riservare a ogni episodio la giusta e significativa collocazione storica, ideologica, culturale. Marc Augé in un suo testo sull’oblio sostiene: “Elogiare l’oblio non significa vilipenderne la memoria, e ancor meno ignorare il ricordo, bensì riconoscere l’attività dell’oblio nella prima e individuarne la presenza nel secondo. La memoria e l’oblio intrattengono in qualche modo lo stesso rapporto che intercorre fra la vita e la morte. […] Ricordare o dimenticare significa fare un lavoro da giardiniere: selezionare, sfrondare. I ricordi sono come le piante: alcuni vanno eliminati rapidamente per aiutare gli altri a sbocciare, a trasformarsi, a fiorire”⁸.
[…]
Rizzo si situa in un ampio cammino pittorico che arriva sino alla pittura neoclassica di Jacques Louis David. E in particolare al suo La morte di Marat dalla cui impostazione spaziale Rizzo è affascinato: il grande pittore francese, infatti, riesce a dare un’enorme importanza al vuoto. La scena è collocata nella parte bassa del dipinto e intorno c’è il vuoto in grado di fortificare e di drammatizzare l’accadimento con la forza del silenzio, che riesce a svilupparsi. Un dramma classico di vasta portata, nessun urlo: è la morte di un eroe. Non ci sono lacrime. Il vuoto è lo stesso che Rizzo pone intorno all’anima del dipinto, il piccolo episodio sempre astratto che è contenuto dalla più grande zona monocroma.
Un’anima dipinta che si inserisce senza sbavature di sorta in una campitura monocromatica in aperto dialogo con essa. Il debito di Rizzo non è soltanto nei confronti di maestri così lontani. Sarebbe impossibile leggere nella corretta prospettiva il suo lavoro senza citare una delle più grandi personalità del cammino dell’astrazione in Italia, la cilena Carmengloria Morales, che di Rizzo è stata maestra. Essere “figli”, come in questo caso, di un grande artista, non significa sminuire il proprio lavoro, anche perché Rizzo del verbo della Morales offre un’interpretazione del tutto originale. Il suo è solo un legame poetico e poietico del fare pittura che sarebbe sciocco dimenticare o omettere in relazione alla sua storia.
Avere studiato con Verrocchio non è stato un limite per Leonardo, ma neppure avere studiato con lui, ne sono convinta, è stato un limite per i suoi allievi. È ovvio che incontrare una grande personalità sul proprio cammino non significa solo positività.
Rizzo ha elaborato la lezione della Morales attraverso una ricerca puntuale a cui attende quotidianamente. Nel corso degli anni è riuscito a creare un suo linguaggio totalmente autonomo di indubbio interesse poetico.
[…]
La situazione della storia dell’arte contemporanea è simile, come già detto, a quella della storia contemporanea. In un recente saggio sull’argomento Manlio Brusatin sostiene in chiave poetica, prendendo a prestito Stazio e Ovidio: “Dove abita l’oblio? Vicino alla casa del Sonno. Sta sulla soglia di una grotta insieme alla quiete opaca. Una liquidità sfuggente e pigra si produce nel ventre della roccia. Da una fenditura scaturisce un filo d’acqua mormorante che gioca tra i sassolini e si chiama dietro il sonno. L’acqua del Lete scorre verso il silenzio che sta da quelle parti. […]
Il Sonno ha una parentela larga e stretta con la Morte (e la Notte). L’oblio è una piccola e grande Notte, molto più debole della Morte, ma anche come qualcosa nella vita, più forte, più forte della Morte”. Morte nell’accezione di dimenticanza, di non esistenza nel pensiero. Il destoricizzare le situazioni come accade spesso ai giorni nostri è come tagliare le radici a una pianta. Tagliare le radici significa togliere i fili di collegamento e dare la morte. Un’opera esiste in quanto tale, certo, in una collocazione storica che va al di là degli stili. Tuttavia il collegarsi a qualcosa di precedente e il pensare a qualcosa di futuro dà un preciso senso alle cose. In tal senso è utile e intelligente proporre anche mostre di taglio trasversale in cui sono posti a confronto lavori di artisti di diverse generazioni in aperto dialogo fra loro.
Così si riesce a attribuire un senso storico anche ai lavori più nuovi. Un senso che vada ben oltre all’effimera trovata legata al momento stesso della creazione dell’opera.
Bill Viola ha realizzato un video in cui le protagoniste emulano una posa già vista nella Visitazione del Pontormo di Poggio a Caiano e l’estate scorsa le due opere erano proposte in una posizione contigua. Modi diversi, attraverso medium diversi, soprattutto, di porsi di fronte allo stesso problema a oltre quattrocento anni di distanza. Sarebbe limitativo parlare semplicemente di citazione. Si tratta di una reinterpretazione, di uno studio complesso di matrice iconografica e simbolica. Così come non si può liquidare come semplice citazione da Mantegna (Cristo morto della Pinacoteca di Brera di Milano) e da Rosso Fiorentino (Deposizione del Museo Civico di Volterra) quella operata da Pasolini rispettivamente in Mamma Roma e La ricotta. In entrambi i casi qui riportati si tratta di un mutamento di mezzi, ma in altri casi si tratta di risposte diverse a problematiche simili nel corso degli anni.
[…]
Oggi più che mai è importante scegliere. Si tratta di un atteggiamento etico che apre alcune strade e ne pregiudica altre. Vale la pena correre il rischio: testimoni sono le opere che si collocano nel cammino dell’arte e riescono a ritagliarsi il loro spazio in relazione al passato e al futuro.
1. Mi pare che sia assai importante specificare che tutte queste constatazioni devono essere riferite al panorama artistico occidentale.
2. Nel breve saggio presente nell’edizione del 2000 di Periscopio mi sono dilungata abbastanza su questo argomento, sulle trovate di molta arte contemporanea, il più delle volte fini a se stesse.
3. H. Weinrich, Lete. Arte e critica dell’oblio, Bologna, Il Mulino, p. 287.
4. In cui si parla di un uomo che di mestiere fa il cestinatore.
5. H. Weinrich, op. cit., p. 289.
6. H. Weinrich, op. cit., pp. 297 sgg.
7. H. Weinrich, op. cit., p. 301.
8. M. Augé, Le forme dell’oblio. Dimenticare per vivere, Milano, il Saggiatore, 2000; pp. 24 sgg.