Elisabetta Longari, “De Pictura Picta”
Testo nel catalogo della mostra De Pictura Picta, Care Of, Cusano Milanino, Edizioni Ready-made, Gennaio 1990
L’impegno che ha portato Morganti, Rizzo e Sartorio a “lanciare” una sorta di manifesto poetico, che prendesse posizione rispetto alla situazione artistica corrente puntualizzando alcuni presupposti fondamentali su cui si basa la loro concezione dell’arte e il loro operare, non costituisce un fatto di secondaria importanza rispetto al lavoro.
Il testo si apre con una dichiarazione di dissenso nel confronti del pensiero postmoderno fornendo un punto nodale da cui partire per tentare un’avventura critica che abbia per oggetto l’opera di ciascuno.
Il postmoderno denuncia, a cominciare semplicemente dal suo aspetto nominale, una sudditanza nei confronti del modernismo che aveva fatto proprio il concetto di nuovo. Tale atteggiamento si rintraccia anche sul piano linguistico: soltanto apparentemente i postmodern si liberano del fantasma del nuovo usando indifferentemente qualsiasi citazione stilistica con ludico disincanto, mentre sostanzialmente continuano a subire tale complesso spostandolo semplicemente dal piano fattuale al piano concettuale. L’imprimatur di ogni operazione postmodern è comunque dato dall’ossessione di dover a tutti i costi essere originale e dalla coscienza negativa di non poterlo essere più in alcun modo.
Il metodo e il sistema di cui si servono gli artisti postmoderni non sono in alcun modo propositivi e lasciano la sensazione amara dell’impoverimento e dello spreco del patrimonio storico. I loro giochi formali sembrano nascere esclusivamente dal tentativo di non restare schiacciati sotto il peso di un’esperienza culturale sterminata che viene vissuta come un paralizzante fardello. In tal modo la frustrazione del desiderio di essere originali sigla la realtà artistica corrente.
Assimilare il passato senza complessi e farne tesoro per il nostro essere nel presente è l’atteggiamento positivo con cui si può rispondere alla storia e all’attualità.
Sgombrato il campo da ogni contrapposizione programmatica e ripresa revivalistica, svincolati da ogni falsa problematica della novità e della moda, i tre giovani artisti milanesi si confrontano apertamente con la grande storia della pittura affrontando il quadro come un luogo fondante di realtà linguistica e poetica.
Per Maria Morganti «ogni quadro» che dipinge «è come se fosse l’ultimo».
Le tele realizzate di recente da Maria sono più sintetiche e decantate rispetto alle precedenti. Oggi l’artista non aggredisce più lo spazio, se ne appropria con gesti ampli e decisi, più essenziali, altrettanto tesi ma meno scomposti. La pittura è azione e ascolto. Le tele più auscultate acquistano un’energia tenace anche se meno appariscente.
Le pennellate, non più tracce immediate e violente del movimento, ormai compongono forme che hanno lo stesso andamento circolare del gesto che il braccio dell’artista compie per racchiudere lo spazio della tela come in un abbraccio. Il quadro viene costretto nei propri limiti e forzatamente compresso in se stesso. All’interno della contrazione introversa dello spazio si attuano eventi estensivi espansivi dilatanti.
È come se Morganti restituisse la visione congelata dei movimenti di uno spazio elastico che si sta chiudendo e aprendo contemporaneamente.
Guardando un suo quadro è come se l’occhio si avventurasse attraverso il buco della serratura e si affacciasse oltre lo schermo muto di una porta per sprofondare immediatamente nelle complesse regioni e nelle infinite dimensioni dello spazio della pittura.
Il colore delle grandi fasce di energia cromatica, nette, compatte e intensamente pulsanti, è tirato e teso ma non piatto: reca sempre le tracce del pennello che lo ha applicato e a volte è lavorato intervenendo su superfici non ancora completamente secche generando contaminazioni sotterranee che a tratti danno luogo a inconsuete iridescenze. Dopo i prolungati soggiorni di Maria a Venezia i rossi, i rosa, i lilla, i blu, i colori secchi e luminosi del Tiepolo si sono sostituiti ai rossi cupi e ai neri sontuosi e drammatici delle tele precedenti.
Dipingere implica anche saper ascoltare il canto sommesso e polifonico della pittura di ogni secolo e di ogni luogo geografico.
Nella pittura di Roberto Rizzo la materia è insieme brutale e preziosa, quasi come nella magia alchemica di Fautrier.
L’artista lavora generalmente su un fondo nero su cui interviene con i pigmenti metallici partendo dal buio per trovare la luce. Oro, grigio alluminio e rosso rame, colori specchianti, duri e iridescenti con un corpo che sa essere anche duttile, morbido e sensuale nel restituire i segni della propria crescita interna. Il colore si addensa in grumi e si stende sotto i colpi veloci e precisi della spatola. Roberto applica la materia sorda, pesante e brillante, la accorpa, la spande, la scava fino a farla cantare in infinite modulazioni aliene da ogni compiacimento virtuosistico. Qui la materia è energia struttiva.
Il primo gesto fondamentale che struttura la materia in energia spaziale si configura con un andamento circolare che si traduce in cerchio o in ovale a seconda del formato quadrato o rettangolare. Tali figure essenziali rientrano fra i segni archetipici e magici del desiderio di possedere uno spazio e di renderlo in certo modo assoluto, basta pensare agli antichi rituali esoterici, alla leggenda e alla storia della pittura da Giotto a Fontana. Delimitare lo spazio del quadro, intervenire al suo interno per caricarlo di segni e di senso e aprirlo al fluire della coscienza e degli eventi.
Il tempo veloce di appropriazione dà luogo a un gesto unico che si impone violentemente come presenza incontrovertibile allo sguardo, mentre il tempo lento prevede una sequenza di gesti interrotti che continuano gli uni negli altri. Tali sedimentazioni di segni che approcciano gradatamente lo spazio catturano lo sguardo in una lenta e inesorabile trama di rimandi. La pittura è memoria di se stessa.
«Tutto è spazio, sia la forma, sia quello che vediamo come spazio vuoto» Mondrian.
L’apparente rigore dell’organizzazione della pittura di Sartorio potrebbe indurre al primo sguardo a pensare a una declinazione della sintassi neo-geo. Appena l’occhio mette a fuoco più da vicino si comprende che non vi potrebbe essere niente di più errato.
L’artista costruisce lo spazio attraverso un tessuto di diverse porzioni cromatiche dalle forme semplici e in certo modo quasi primarie, ma all’operazione presiedono in egual misura improvvisazione e coscienza formale. La crescita del dipinto non segue mai un rigido progetto iniziale mentre si sviluppa lentamente durante e secondo il proprio farsi. La scelta del colore è ugualmente frutto dell’istinto come della funzionalità nell’economia interna all’opera. Non esistono quindi colori puri e primari applicati secondo un calcolo analitico, anzi il colore conserva gli echi e le vibrazioni delle cromie sottostanti che affiorano in rattenuti effetti traslucidi, in tessiture sottili e trasparenti dando luogo a infinitesimali scarti di temperatura. Sapienza cromatica che si dispiega in gamme sommesse di grigi appena variate dalla minima immissione di un giallo, di un rosso e di un verde, in infinite possibilità del nero giocate sui registri di opaco-lucido, in un amalgama visivo di toni suadenti che sanno squillare al fondo di sostanziali differenze.
Parimenti le diverse zone che creano il tessuto del quadro non seguono forme geometriche ortodosse e risentono degli spessori dei contorni delle zone sottostanti. Il corpo di un rettangolo nero può recare in sé il ricordo vivo e presente di una linea curva.
Le campiture tessute dalle tracce delle pennellate che stendono il colore dandogli diversi corpi a volte si configurano come le tramature vibranti dell’ordito di un tessuto di seta.
Stesura dopo stesura la pittura cresce di cancellazioni e trasparenze.
L’occhio resta implicato nelle tracce del percorso esecutivo.
L’aspetto aprogettuale comune alla pittura di Morganti, Rizzo e Sartorio sottolinea il valore fattuale, il confronto diretto, fatto di azione e coscienza, con lo spazio reale della tela.
Il quadro è uno spazio assoluto in quanto non rimanda a niente altro che a se stesso e nel contempo è uno spazio assolutamente relativo, legato inscindibilmente alla propria prassi che è unica e irripetibile, contingente, somma di tutti i fattori del presente. Le condizioni di luce e di temperatura, lo stato fisico, psicologico ed emotivo, i ricordi del cuore, della mente e della retina, gli amori, le emozioni, i libri letti e i quadri visti.