Roberto Rizzo, “Forma sostenibile”
Testo del 2007 pubblicato sul sito personale www.formasostenibile.it dal 2007 al 2014
Per tornare ad incidere sulla realtà e sul suo processo storico, l’arte contemporanea italiana dovrebbe tornare a confrontarsi con la forma. Per fare questo è necessario che la pittura e la scultura, fatte di colore e materia, tornino ad essere tra i protagonisti della scena artistica e culturale.
Se questo oggi non è ancora possibile è perché consideriamo la condizione esistente come l’unica logica conseguenza di un percorso storico. Se scopriamo però che quella che consideravamo come l’unica interpretazione di un percorso è in realtà una visione parziale e incompleta, la logica conseguenza è che quello che prima ci sembrava ovvio a un certo punto non lo è più.
Pensiamo per esempio a due fondamentali artisti del ’900 con i quali tutti noi oggi, a prescindere dal linguaggio artistico che prediligiamo, dobbiamo confrontarci per esprimere un pensiero o un’opera d’arte: Marcel Duchamp e Lucio Fontana. Il primo ha più di tutti messo in discussione il significato e il valore dell’opera d’arte, il secondo ha rivolto invece il suo interesse verso i limiti del linguaggio artistico e lo spazio che lo determina.
Duchamp opera un trasferimento di termini da un concetto ad un altro e questo viene giustamente considerato un fatto determinante nell’arte moderna. Ciò avviene però sempre in relazione all’oggetto dell’opera, che non è oggetto strumentale ma soggetto di un rapporto dialettico. L’orinatoio, pur essendo un prodotto industriale e non manuale, viene scelto non solo per la sua funzione ma anche per la sua forma curva e sinuosa. L’opera d’arte concettuale non è quindi in origine solo comunicazione ma un imprescindibile intreccio tra idea e oggetto. Fontana buca e taglia la superficie del quadro aprendo il suo spazio bidimensionale all’esterno. Gli “ambienti” tridimensionali che realizza sono una conseguenza di questa azione. Esiste però anche un percorso percettivo inverso. I “buchi” e i “tagli” introducono l’ambiente esterno all’interno dello spazio bidimensionale del quadro. Come per Burri, Braque e altri, elementi esterni alla pittura si fanno pittura. Fontana, anche quando realizza gli ambienti, non abbandona mai il quadro, essendo esso insostituibile nelle caratteristiche che gli sono proprie.
L’installazione o la performance non sono, quindi, come comunemente si crede, lo sviluppo del quadro o della scultura ma semplicemente dei contesti artistici differenti. Oltretutto non sono neppure nuovi linguaggi, avendo essi origine nello spazio barocco, nelle wunderkammern, nelle scenografie delle feste di corte del ’500 e nei riti sacri religiosi.
Dimenticando che non sono mai esistiti linguaggi “puri” si è considerato necessario, negli ultimi tempi, “contaminare” i diversi ambiti artistici tra loro per liberare l’arte dalla condizione specialistica che avrebbe limitato i tradizionali linguaggi della pittura e della scultura.
Tale posizione è però il frutto di un’analisi superficiale, colpevolmente inconsapevole nei confronti delle origini e delle caratteristiche dei linguaggi stessi. Così quelli che vengono considerati nuovi linguaggi, volendo eliminare i limiti e le convenzioni dall’arte, senza volerlo ne hanno create di nuove. Avere inteso l’arte come un percorso lineare di progresso, e non come una realtà permanente che si manifesta ogni volta in modo diverso nel tempo, ha causato un senso di frustrazione e di sfiducia nella nostra capacità di essere all’altezza di chi ci ha preceduto.
A questo si unisce il senso di colpa di noi contemporanei nei confronti di un’idea di progresso infinito e infallibile che credevamo scontata e che, però, si è rivelata causa di tragedie e conflitti di dimensioni sempre maggiori, fino a minacciare l’esistenza stessa del pianeta in cui viviamo.
Da qui deriva la nostra difficoltà nel progettare nuove forme, accontentandoci o di ripetere quelle già esistenti o di rinunciare ad esse completamente, intendendo l’arte solo come comunicazione. Nei due modelli di riferimento esistenti per chi fa arte, quindi, troviamo o un recupero dell’idea moderna di progresso, che ormai si è ridotta ad un formalismo senza idee, o in alternativa un “nomadismo” di idee senza forma, scollegato con la storia dell’arte e quindi con la storia. In ambedue i contesti la relazione idea-oggetto è evitata, rimossa. Nel primo caso riproponendola acriticamente, nel secondo ignorandola. Sono tutte e due posizioni accademiche, conservatrici e reazionarie, che non fanno altro che riproporre l’arte solo come strumento di rappresentazione, figurativa o astratta, di canoni di riferimento formale o etico. Sono la vecchia e più tradizionale “Accademia del bello” e la nuova e più tecnologica “Accademia del giusto”.
Sarebbe quindi auspicabile una nuova analisi storica e critica del percorso intrapreso dall’arte contemporanea e del suo rapporto con le avanguardie artistiche del ’900. Con un’attenzione particolare a quella italiana, irrigidita nei suoi riferimenti ideologici da posizioni dogmatiche e strumentali che impediscono una reale e vitale dialettica tra le forme e i contenuti dell’arte.
Mi sembra necessario oggi riparare il cortocircuito che si è creato nella relazione idea-oggetto per rendere di nuovo possibile lo scambio dialettico tra i due elementi costitutivi dell’arte e della realtà in generale:
– Superando sia la posizione “politicamente corretta” ma incapace di trasformare la realtà di gran parte della attuale arte concettuale (anche quando questa appare nella sua versione trasgressiva e provocatoria) sia quella formalista e priva di capacità analitica di gran parte dei linguaggi artistici più tradizionali, figurativi o astratti che siano.
– Immaginando nuove forme della contemporaneità, diverse da quelle odierne prodotte da un pensiero troppo spesso onnipotente, dogmatico e distruttivo.
– Ispirando, attraverso la realizzazione di una “forma sostenibile” (decostruita, destrutturata, imperfetta, svuotata, aperta, tendente all’assoluto ma cosciente di essere relativa) quella visione storica e di progresso più diffusa che chiamiamo “sviluppo sostenibile”.
La pittura e la scultura potranno così tornare a costruire le loro forme concrete rapportandosi allo spazio che le contiene, senza però rinunciare alle proprie relazioni interne e quindi alla propria identità. L’installazione potrà finalmente uscire dall’equivoco in cui si trova, riscoprendo le proprie origini storiche. La fotografia e il video potranno realizzare le loro forme virtuali, non solo concentrandosi sul contenuto della loro rappresentazione ma riportando questo ad un rapporto dialettico con il mezzo che lo esprime e lo spazio che lo accoglie.
Linguaggi artistici tradizionali e tecnologici, dialoganti in una nuova ma allo stesso tempo antica relazione, non più acritica e casuale ma analitica e consapevole, fondata sul riconoscimento delle reciproche peculiarità. Capaci finalmente di essere parte attiva nel processo della storia.
Milano, novembre 2007