Roberto Rizzo, “Deposizione”

Testo inedito, 2003. Riflessioni sull’opera omonima del 1998

Nel pensiero comune, non solo artistico, la storia dell’umanità è considerata come un percorso evolutivo lineare. Allo stesso tempo però sentiamo spesso definire il periodo greco classico come il più alto momento raggiunto, non solo nell’arte ma anche nella filosofia e nella politica. Tutto quello che è successo dopo viene di volta in volta visto come regressione, oppure come emulazione, ma sempre in relazione ad un modello di perfezione. Questo vale fino al XIX secolo quando, con la nascita delle avanguardie, tutti i riferimenti estetici saltano lasciando spazio ad una frenetica ricerca di novità.
Mi è impossibile, per questo, applicare alla storia dell’arte l’idea di progresso che è spesso stata cara al pensiero occidentale. Trovo più logico vederla come un percorso accidentato e spesso avvitato su se stesso, poco confacente al rapporto che abbiamo con lo scorrere del tempo.

Jorge Luis Borges, in un suo brano, ricorda di essersi trovato una notte lungo una strada fangosa, davanti ad un muro rosa, di aver perso la cognizione del tempo e rivissuto un’esperienza già provata trent’anni prima:
«… questa pura rappresentazione di fatti omogenei – notte in quiete, muro nitido, odore di provincia della madreselva, fango essenziale – non è soltanto identica a quella che si verificò in quest’angolo tanti anni fa; è, senza somiglianze né ripetizioni, la stessa. Il tempo, se possiamo intuire tale identità, è una delusione: l’indifferenza e inseparabilità di un momento del suo apparente ieri e di un altro del suo apparente oggi, bastano a disintegrarlo.»

Osservare una stella è come risalire indietro nel tempo, la sua luce si diffonde ad una velocità finita. Questo significa che la luce che vediamo oggi è stata emessa miliardi di anni fa e che la stella che l’ha generata potrebbe non esserci più.
Trovo che questa regola astronomica sia comprensibile da un punto di vista razionale, ma contemporaneamente inconcepibile per noi che ci appoggiamo alle nostre poche sicurezze quotidiane.
La suggestione che ne deriva ci permette per un attimo di dimenticare la progressione temporale e di cogliere l’eternità.
Credo che l’idea di eternità abbia a che fare con quella di arte.

Sant’Agostino, alla fine del IV secolo, scriveva a proposito del concetto di tempo:
«Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di lui che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere.»

Quando guardo un’opera del passato trovo interessante sia il soggetto rappresentato sia il suo aspetto formale, ma ciò che me la fa sentire come un’opera d’arte è la sua presenza atemporale.
Se l’artista che l’ha creata e l’ambiente in cui viveva non esistono più da molto tempo, la sua opera – anche se logorata o addirittura danneggiata – è nostra contemporanea. In questo senso, così come la nostra concezione di presente riunisce tutto ciò che da noi è esperito, quella di passato diventa una nostra ricostruzione culturale. Il significato e il valore di un’opera antica sono influenzati dalla percezione che noi abbiamo della nostra epoca.

Lo ha espresso, del resto, Walter Benjamin nella sua analisi, denunciando l’aspetto mistificatorio che la prospettiva storica può assumere. Per esempio quando una concezione strumentalmente elitaria della cultura, e quindi dell’arte, determina un processo di perdita dell’esperienza reale da parte dell’uomo nella società di massa e la conseguente distruzione delle relazioni tra gli individui.
In seguito all’invenzione della riproduzione tecnica, l’opera d’arte contemporanea avrebbe subito la “scomparsa dell’aura”, in altre parole della sua autenticità e della sua unicità, per essere sostituita da un valore prevalentemente espositivo e divulgativo. Questo suscita in lui un sentimento ambivalente, di approvazione e di rimpianto allo stesso tempo.
Pur vedendo in questo un elemento positivo da un punto di vista sociale ed economico, Benjamin contesta la riduzione del prodotto culturale e quindi dell’opera d’arte ad oggetto di consumo. Per questa ragione si auspica un generale processo di redenzione e di liberazione che coinvolga anche l’arte e che porti quest’ultima ad una nuova dimensione, innocente quanto lo fu il suo contesto originario sacro e magico-rituale.
Egli scrive:
«… così come nelle età primitive, attraverso il peso assoluto del suo valore cultuale, l’opera d’arte era diventata uno strumento della magia, che in certo modo soltanto più tardi venne riconosciuto quale opera d’arte, oggi, attraverso il peso assoluto assunto dal suo valore di esponibilità, l’opera d’arte diventa una formazione con funzioni completamente nuove, delle quali quella di cui siamo consapevoli, cioè quella artistica, si profila come quella che in futuro potrà venir riconosciuta marginale.»
Benjamin però dà al significato intrinseco dell’opera d’arte un valore non fondamentale. L’aspetto funzionale e comunicativo assume in questo modo primaria importanza. Il suo è un approccio che definisce l’opera d’arte, prima di tutto, quale mezzo di rappresentazione di un contesto storico e sociale.
Il linguaggio pittorico, essendo fruibile da un numero limitato di persone, viene da lui considerato un linguaggio artistico meno efficace di altri nella nuova società di massa. Questo perché, in quanto esperienza percettiva individuale, esso non esprime propriamente gli interessi della collettività:
«Il fatto è appunto questo, che la pittura non è in grado di proporre l’oggetto alla ricezione collettiva simultanea, cosa che invece è sempre riuscita all’architettura, che riusciva un tempo all’epopea, che riesce oggi al film. E per quanto, in sé, da questa circostanza non vadano tratte conclusioni riguardanti il ruolo sociale della pittura, nel momento in cui, in seguito a particolari circostanze e in certo modo contro la sua natura, la pittura viene messa a diretto confronto con le masse, precisamente quella circostanza agisce come una grave limitazione.»

Nella pittura l’esperienza percettiva diretta e individuale è fondamentale.
Dipingere su tavola significa appurare che la fisicità dell’opera non limita la sua dimensione concettuale.
Quando un’opera contemporanea rifiuta la propria componente materiale, nel perseguimento di una presunta superiore finalità concettuale, spesso svela la propria impossibilità di relazione con il passato e con il futuro. In questo caso la sua dimensione presente si riduce all’aneddoto, rinunciando alla sua opportunità di estensione temporale.
Ogni opera d’arte si manifesta attraverso un’immagine che può essere riconoscibile oppure intuibile. La sua familiarità deriva dalla sua possibile relazione con un universo visivo condivisibile, il quale può appartenere alla realtà fisica oppure ad una indecifrabile realtà psichica. Se l’immagine, qualunque essa sia, ha una funzione rappresentativa del mondo, ciò che la concepisce – il suo processo di realizzazione – ci rivela una condizione antica quanto l’essere umano.
Dipingere un grande quadro partendo da un tema iconografico tradizionale come la “Deposizione”, significava per me innanzitutto verificare l’esistenza di due percorsi interpretativi nella loro reciproca corrispondenza: uno più immediato, quello dell’immagine rappresentativa, l’altro più profondo, dato dall’immagine presentativa e dalla sua grammatica costruttiva.
Quest’ultima realtà è precedente alla prima, profonda quanto l’atto generativo dell’autore.
Qui posso riconoscere il fondamento del mio interesse.
Se manca questa realtà manca tutto, anche se esiste la sua proiezione narrativa o descrittiva che, in questo caso, diventa fine a se stessa, inutile cronaca.

Lo studioso Louis Marin parte dal pensiero dei logici francesi del XVII secolo e, parlando della mappa di una città come strumento enunciativo, ci spiega:
«Come ogni dispositivo rappresentativo, la mappa possiede due dimensioni. La prima è transitiva: una mappa rappresenta qualcosa – il suo oggetto. La seconda è intransitiva o riflessiva: essa si (rap)presenta rappresentando qualcosa – il suo soggetto. In quanto rappresentazione, una mappa significa (asserisce il suo enunciato, il tema) e al contempo mostra che significa.»
E ancora:
«Uno degli interrogativi che possiamo porre alla mappa, alla pianta cartografica della città, è dunque quello della sua enunciazione, della autopresentazione nel suo rappresentare una città. La pianta della città era chiamata un tempo ritratto di città. Il ritratto di un individuo e quello di una città pongono in effetti problemi simili riconducibili tutti alla questione della città come individuo. Da cosa riconosciamo che un ritratto o una pianta sono effettivamente tali? Cosa significa il criterio della somiglianza? Che posto hanno la finzione e la figurazione nell’esattezza e la fedeltà di una pianta? Questa fedeltà è forse un’esigenza razionale che funziona come un’illusione di lettura? Quali potrebbero essere i livelli di questi effetti?»
Marin sviluppa queste questioni in un altro testo, concentrandosi sul concetto di rappresentazione:
«In altri termini, rappresentare significa presentarsi nell’atto di rappresentare qualcosa e ogni rappresentazione, ogni segno o processo rappresentazionale comprende una doppia dimensione – una dimensione riflessiva: presentarsi; una dimensione transitiva: rappresentare qualcosa – e un duplice effetto: l’effetto di soggetto e quello di oggetto.»

Volontariamente oppure no esiste quindi una corrispondenza tra la dimensione transitiva e quella intransitiva, un rapporto dialettico tra i due livelli interpretativi, tra il soggetto rappresentato – ammesso che questo ci sia – e il linguaggio che, rivelandolo, esprime prima di tutto se stesso. Come nella Deposizione, dove la relazione tra la suggestione causata dall’evento tragico e il quadro che la contiene non svela quale dei due elementi sia precedente all’altro.
Sul rapporto tra la nostra percezione degli oggetti attraverso i sensi e i termini con i quali li riconosciamo Marcel Proust scrisse:
«I nomi che designano le cose rispondono sempre a una nozione dell’intelligenza, estranea alle nostre autentiche impressioni, e tale da costringerci a liberarle di tutto ciò che non si rapporti ad essa.»
In questo modo Proust ci rende evidente quanto sia labile il confine tra la spontaneità delle nostre sensazioni e le sollecitazioni culturali che influenzano le nostre analisi.

La contrapposizione tra figurazione e astrazione, che ha contraddistinto gran parte del XX secolo, trae origine da quella che si manifestò più volte nel passato in ambito religioso tra iconismo e aniconismo. La rappresentazione di ciò che è divino e soprannaturale oscilla da sempre, infatti, tra possibile e inammissibile nel rapporto tra arte e dimensione sacra.
Nel XVI secolo, nell’Europa settentrionale, le numerose rivolte iconoclaste che sfociarono nella Riforma protestante ostacolarono il rapporto tra arti figurative e culto religioso.
Per questo motivo si attribuisce a quel momento la nascita della natura morta in pittura.
È interessante notare come un espediente rappresentativo della pittura fiamminga di quel periodo sia stato considerato rivoluzionario da alcuni storici, proprio nella sua “dimensione transitiva”. Alcuni artisti, per non rinunciare alle tradizionali immagini sacre, decisero di inserire queste ultime in secondo piano nelle nature morte, visibili attraverso una finestra o una porta. Se nella scelta dell’attribuzione di valore al soggetto rappresentato questa era una novità, da un punto di vista formale essa non era altro che una variante di una già preesistente impostazione spaziale.
La presenza di uno sfondo – sia esso paesaggistico oppure raffigurante una scena storica o letteraria – rispetto ad un soggetto principale e la sua definizione all’interno di una finestra oppure tra altri elementi architettonici, hanno da sempre rappresentato un dato costitutivo della pittura.
La doppia interpretazione delle opere artistiche, narrativa e strutturale o rappresentativa e presentativa, permette così di individuare in un’opera elementi nuovi e antichi allo stesso tempo.
Quando pensai di interrompere la continuità dello spazio nella Deposizione, separando le quattro tavole che la componevano, fui sorpreso non tanto da una presunta invenzione formale quanto piuttosto dalla constatazione che quell’intuizione era la variante di una rivelazione percettiva già esistente sia nei miei precedenti quadri, sia nella storia della pittura in generale. Il passaggio improvviso dalla superficie del quadro alla sua assenza fisica e quello dalla forma pittorica allo sfondo smaltato corrisponde semplicemente a ciò che nella linguistica è definita come “sincope”. Termine questo utilizzato anche da Louis Marin nelle sue argomentazioni. In questo caso specifico inteso come improvvisa frattura di un campo visivo o come cortocircuito nella percezione di un’immagine. Una rivelazione inattesa di un ossimoro visuale: pittura che nega se stessa e alterità che diventa pittura. Presenza di un’assenza da sempre realizzata nell’arte, sia figurativa sia astratta.
Sono “sincopi” il fondo d’oro di Cimabue, la tela non dipinta di Matisse, lo squarcio di Burri e il taglio di Fontana, visioni improvvise di un’altra realtà come nei versi di un grande mistico del XVI secolo, Giovanni della Croce:
«Oh fiamma d’amor viva,
che tenera ferisci
di quest’anima il centro più profondo!,
perché non sei più schiva,
l’opra, se vuoi, finisci,
squarcia la tela del soave incontro.»

La croce dalla quale fu deposto Gesù Cristo ha due valenze: una simbolica – centrale nella tradizione cristiana – e una pre-simbolica che trova nella sua struttura un’evidente origine antropomorfa.
Per questo credevo che il tema della deposizione del corpo di Cristo si specchiasse nel senso dell’opera. Non in senso didascalico, per giustificarla, ma per ritrovare la sua unità partendo da differenti dati parziali, per definire una volta per tutte l’inesorabile contemporaneità del passato.
Il profilo della forma al centro del quadro si rifaceva in particolare a due “Deposizioni”: una più piccola di Rembrandt, che si trova a Monaco di Baviera e una più grande di Rosso Fiorentino, che è invece a Volterra. Tutte e due non rispettano perfettamente i canoni della tradizione classica. La prima è troppo drammatica e cupa, la seconda è troppo allucinata ed esasperata.
La forma dipinta con la spatola galleggia su un fondo rosso. L’effetto è violento, quasi brutale. Lo spazio del quadro misura 310 cm d’altezza per 210 cm di larghezza. Esso è formato da quattro tavole indipendenti staccate l’una dall’altra da uno spazio di 10 cm.
La banale ragione costituita dalla maggior facilità nel gestire quattro supporti di dimensioni ridotte invece che uno più grande, si accompagnava ad una straniante visione di uno spazio unico e diviso allo stesso tempo.
Uno spazio che, pur essendo frammentato nella sua continuità fisica, si mostrava come un’unica entità nella ricostruzione percettiva dello sguardo. Nel bisogno di questo di riconoscere la bidimensionalità convenzionale dello spazio della pittura.
L’eternità di Dio che si manifesta attraverso il suo corpo morto, ridotto a materia deperibile, è come lo spazio assoluto dell’arte che si infrange nei suoi limiti fisici.

Il riconoscimento della componente oggettiva di un’opera d’arte presuppone la cosciente possibilità della sconfitta nel confronto con il mondo e con la storia, soprattutto rispetto ad un passato così ingombrante come il nostro.
La coesistenza dialettica tra le due dimensioni che individuiamo nella lettura di un’opera è sviluppata in diversi modi.
Anche nel teatro la vicenda rappresentata non può fare a meno di confrontarsi con lo spazio nel quale si muovono gli attori, con il mezzo che rende possibile la sua rappresentazione.
L’Amleto di Shakespeare rivela l’impossibilità se non la rinuncia, da parte del suo personaggio recitante, di agire condizionando gli eventi successivi. C’è in lui la consapevolezza che, prima della rappresentazione di un evento, venga l’accettazione o il rifiuto del ruolo che gli è stato assegnato.
Per il teatro contemporaneo Shakespeare è un riferimento fondamentale perché è allo stesso tempo “classico” e “moderno”. Da molti, fino al XVIII secolo, Shakespeare sarà visto come un barbaro, in quanto non rispettoso dei principi aristotelici sull’unità di tempo, di luogo e d’azione nella rappresentazione. Solo dal Romanticismo in poi sarà considerato più liberamente, secondo i suoi meriti.
Nell’Amleto possiamo trovare alcune battute che ci rivelano molto esplicitamente quanto Shakespeare considerasse conflittuale il rapporto tra l’attore e il ruolo da lui interpretato, in altri termini tra l’artista e lo spazio della rappresentazione.
Per esempio, quando il protagonista dice:
«Non è mostruoso che un attore, nient’altro che per un simulacro di passione, un sogno, si immedesimi tanto nella parte che il suo aspetto cambia, il volto gli si sbianca, gli occhi umidi, la voce spezzata, e in lui tutto incarna sentimenti suggeriti? E questo per niente!»
Oppure, in un altro momento, quando non riesce a passare all’azione e a vendicare l’assassinio del padre:
«Che cosa è l’uomo più della bestia, se del suo tempo non fa uso migliore che per mangiare e dormire? Chi ci diede una mente di così gran tratto, capace del passato e del futuro, non ci creò con questi doni, per i quali il pensiero partecipa del divino, perché da noi si lasciassero muffire in noi senza usarli. Sia letargo bestiale, sia questo vizio di analisi a studiar troppo le cose – pensiero che spaccato in quarti ne ha uno di saggezza e tre di viltà – io davvero non so perché passo la vita a dire: “questo è da farsi”, quando ho causa, volontà, salute e mezzi per farlo.»
Il re usurpatore Claudio rivolgendosi a Laerte, al quale Amleto ha appena ucciso il padre, chiede, usando una metafora artistica:
«Amavi tuo padre, Laerte? O sei come la pittura di un dolore, un volto senza cuore?»

Secondo gli antichi Greci gli uomini che li avevano preceduti, prima di lavorare la pietra e di produrre obelischi e piramidi, veneravano soltanto pietre non lavorate. Attribuivano quindi ad oggetti già presenti in natura un nuovo significato, in questo caso religioso e divinatorio. Una sorta di “ready-mades” ante litteram i cui percorsi intellettuali, persi in un passato lontano e indefinito, si catapultano nella nostra contemporaneità.
La scelta di un elemento della natura o di un oggetto e l’attribuzione di un ruolo, attraverso la sua esposizione, sono sempre state funzionali agli intenti umani.
Una tavola (o una tela appesa ad una parete) è riconosciuta convenzionalmente come spazio della pittura. La frattura che divide in quattro parti uguali la Deposizione e che mostra parte della parete retrostante, se allude ad un’alterità lo fa per assimilare quest’ultima al quadro stesso. Essa rivela la contraddittorietà della pittura, manifestandosi nello spazio del quadro, idealmente assoluto ma in realtà fisicamente relativo. Parte, per quanto grande, di un ambito spazialmente e culturalmente più ampio, quello del mondo che lo contiene.

Tommaso Cassai, detto Masaccio, era registrato dal 1422 presso il Catasto fiorentino come iscritto all’arte dei “Medici e Speziali”. Gli artisti da sempre si sono dovuti confrontare con la scienza e con la tecnica e anche, sin dall’antichità, con la filosofia e il mondo delle idee. Questo è avvenuto spesso con senso d’inferiorità nei confronti di discipline più nobili ed importanti, o almeno considerate tali nel pensiero comune. Se per Masaccio la conoscenza e applicazione della prospettiva, scoperta da Brunelleschi e teorizzata dall’Alberti, era funzionale e subordinata alla costruzione pittorica, per altri artisti, per esempio Leonardo, l’estetica dell’espressione artistica è strumento per la speculazione conoscitiva, per l’indagine scientifica.
La mente speculativa di Leonardo si ritrova in Marcel Duchamp, in una versione amletica, tragica e comica allo stesso tempo.
È interessante osservare il graduale passaggio che compie Duchamp da un ambito propositivo ad un atteggiamento spiazzante e dissacratorio, per giungere infine ad una posizione inattiva, superiore, al riparo da qualunque critica.
Egli nella sua ricerca attraversa tutte le avanguardie pittoriche. Però solo in superficie, perché i quadri e i dipinti prodotti per lui hanno senso solo in quanto tracce di un processo mentale. Negli stessi anni in cui Malevič annulla il valore descrittivo in pittura, per svilupparla in un ambito puramente percettivo e funzionale, Duchamp annulla quello estetico-costruttivo, per dichiarare che il senso dell’opera è il concetto che questa enuncia.
Dopo il suo distacco dalla pittura egli forse pensa anche alla fine dell’arte. Non a caso in quel periodo preferisce dedicarsi al gioco degli scacchi.
La mancata realizzazione delle opere annunciate rivela la tragica impotenza di Duchamp di fronte al passato, nei confronti del quale non rimane che un definitivo sberleffo.
Questo atteggiamento, geniale ed estremo, sposta il senso dell’operazione artistica dall’opera d’arte in quanto oggetto al soggetto dell’artista/sciamano, che troverà in Joseph Beuys una affascinante variante di tipo politico-antropologica.
In ambito artistico-concettuale, nella sua versione più banale, questo pensiero confonde e sostituisce il livello presentativo – il più profondo dei livelli interpretativi dell’arte – con quello rappresentativo, in questo caso più superficiale e narrativo, finalizzato alla cronaca e all’attualità. Il relativismo di gran parte di quest’arte è fittizio nel momento in cui si definisce come traguardo di un percorso evoluzionistico, di affrancamento dall’oggettualità del prodotto artistico. Le sue parole d’ordine sono la contaminazione e il superamento dei confini linguistici, ma la sua posizione è categorica e sfocia nell’accademismo. Tutto il contrario di Duchamp, il quale non cade nell’errore di trasformare la sua critica in sistema universalistico e dogmatico.
La dimensione riflessiva, nella Deposizione, è fondamentale perché solo questa può permettere all’opera di allacciarsi a ciò che è stato creato e pensato nel passato e a quanto lo sarà nel futuro. La dimensione rappresentativa, contingente ad un periodo storico, è in questo caso complementare all’altra perché riconferma la presenza di questa attraverso l’elemento iconografico.
In questo modo la Deposizione può rivelarsi come “pittura” senza ridursi a strumento di rappresentazione e per questo sacrificare la propria natura indipendente. L’immagine che evoca il tragico momento si riflette nel processo pittorico che la esprime.
Essere Dio o essere uomo, infinito o finito. Oppure agire o contemplare, essere idea o essere materia, spazio di rappresentazione o di riflessione. In equilibrio sul confine che separa queste opposizioni inconciliabili, si trova la Deposizione.

Se sono due le vie interpretative per la lettura di un’opera, le scarpe e gli zoccoli dipinti da Van Gogh assumono significati differenti per chi li guarda. Per alcuni potranno essere stati soggetti scandalosi, non meritevoli di essere rappresentati, per altri il simbolo della dignitosa sofferenza dei contadini o degli operai, per altri ancora solo un pretesto per fare un quadro.
Chi non aveva bisogno di pretesti vivendo in un’altra epoca storica era Mark Rothko, il quale senza cadere in alcun equivoco poteva permettersi di paragonare la pittura ad altri linguaggi, per esempio al teatro:
«Penso ai miei quadri come a rappresentazioni drammatiche; le forme sono gli attori.
Essi nascono dalla necessità di disporre di un gruppo di attori in grado di muoversi drammaticamente senza imbarazzo e di fare certi gesti senza vergogna.
Né l’azione né gli attori possono essere presentati o descritti in anticipo. Essi iniziano come un’avventura sconosciuta in uno spazio sconosciuto. È nel momento del compimento che, in un lampo di riconoscimento, li si vede assumere la quantità e la funzione loro destinate. Le idee e i piani che all’inizio si avevano in mente non sono che la porta attraverso cui si lascia il mondo in cui hanno preso forma.»

Nella Deposizione la forma che evoca il corpo di Gesù deposto dalla croce è il risultato di una serie di gesti verticali, dall’alto verso il basso. Di queste azioni strutturanti non rimane che la parte necessaria a definire la forma. Il resto della quantità di energia impiegata e del colore steso con la spatola rimangono legati al tempo dell’esecuzione, per non lasciare più traccia nel risultato finale. L’ostinato tentativo di rendere eterni l’agire dell’uomo e la materia deperibile trova la propria ragione universale nel cosciente riconoscimento dell’ineluttabilità del limite umano, fisico e temporale.
Così come Cristo – ucciso sulla croce – risorge con il suo spirito ma anche con il suo corpo, anche la pittura – più volte data per morta – come l’Araba Fenice ogni volta risorge, non solo idealmente ma portando con sé la sua sostanza materiale, la sua presenza fisica, fatta di gesti e di colore. Come se ogni singolo artista, per quanto grande, facesse parte soltanto di un episodio all’interno di una vicenda più lunga. Tutto questo viene sintetizzato da Borges in una frase:
«Nessuno è qualcuno, un solo uomo immortale è tutti gli uomini.»

 

Fonti bibliografiche

Jorge Luis Borges, “Nuova confutazione del tempo”, in Altre inquisizioni, 1991, Universale Economica Feltrinelli, p. 179.
Sant’Agostino, Le Confessioni, 1991, Arnoldo Mondadori Editore, p. 326.
Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 2000, Piccola Biblioteca Einaudi, p. 28, p. 39.
Louis Marin, “La mappa della città e il suo ritratto”, “Mimesi e descrizione”, in Della rappresentazione, 2001, Meltemi Editore, pp. 76-77, pp. 123-124.
Marcel Proust, “All’ombra delle fanciulle in fiore”, in Alla ricerca del tempo perduto, volume primo, 1987, I Meridiani – Arnoldo Mondadori Editore, pp. 1011-1012.
Giovanni della Croce, “Fiamma viva d’amore”, in Giovanni della Croce e la notte mistica, di Yvonne Pellé-Douël, 1990, Edizioni Paoline, p. 87.
William Shakespeare, Amleto, 1997, Biblioteca Economica Newton, p. 104, p. 127, p. 136.
Mark Rothko, “The romantics were prompted…”, 1947, in Possibilities, n.1.
Jorge Luis Borges, “L’immortale”, in L’Aleph, 1991, Universale Economica Feltrinelli, p. 19.