Alberto Mugnaini, “Dal fondo dell’opaco”

Testo nel catalogo della mostra Continua la pittura, Fondazione Zappettini, Chiavari, Febbraio 2010

Sono passati quattro decenni da quando, grazie all’affinarsi delle indagini di tipo analitico, si posero le basi per un riscatto consapevole e radicale della pittura. E anche adesso, come allora, ci ritorna l’eco di pronunciamenti che suonano come rintocchi funebri per le sorti di questa disciplina. Se in quella stagione ormai lontana essa fu da più parti designata come capro espiatorio per la paventata morte dell’arte, ora di fronte a un’arte che è invece felicemente sopravvissuta come post-moderna, post-umana, pantagruelica e adesso tendenzialmente onnipervasiva e senza fine, la pittura, azzarda qualcuno, sarebbe ormai una lingua morta.
La pittura, ho già avuto modo di dirlo fuggevolmente, è un dato antropologico, quasi pre-artistico¹ ma non merita insistere su quest’argomento. Qui si tratta di vedere, più specificamente, perché una temperatura mentale volta a concepire la pittura come metodo d’indagine su se stessa, con un alfabeto limitato all’essenziale, concentrata sul proprio meccanismo significante, trovi anche in questo nostro oggi la sua ragione e la sua libertà, e perché abbia ancora un senso, e quale, una tale “danza nelle catene”. È in questo agone, dove si giocano, di nuovo, le sue sorti e la sua sussistenza, che la pittura di oggi è chiamata a raccogliere il testimone di quella Pittura Analitica che allora, portando a compimento fin dentro al dipinto la rottura epistemologica inaugurata da Saussure², calò con successo tutte le carte della propria autodefinizione. Non è questa la sede per ripercorrere le tappe che condussero all’edificazione di questa impalcatura tanto operativa che teorica, né per affermare la sua inaudita portata. Né, tantomeno, per rivangare le ragioni che portarono a rimuoverla, e i motivi della sua mancata valorizzazione al cospetto di altre tendenze che, alla svolta degli anni ottanta, monopolizzarono, con grandi clamori, la scena internazionale dell’arte. C’è solo da sperare che il rinnovato interesse con cui in questi ultimi tempi vengono seguiti i percorsi tracciati dalla Pittura Analitica porti a un effettivo bilanciamento di ingiustificabili squilibri di valutazione.
Il problema è capire come la sua scia sia ancora percorribile. Perché, nella sua teorizzazione più stringente, essa parrebbe chiudersi in se stessa, non lasciare più varchi o soglie transitabili: ponendosi, dal punto di vista della dicotomia di Worringer, al limite estremo dell’astrazione, fondata però su una monadica concretezza, essa finisce per essere  un punto d’arrivo difficilmente raggiungibile per assecondare altre partenze.
Se si accettano infatti le risultanze della pittura analitica nella sua forma più circoscritta, come fu codificata da Klaus Honnef nel 1974³, veramente si tocca un punto d’arrivo storicamente irripetibile, di fronte alla cui implacabile consequenzialità ogni ulteriore sviluppo sarebbe stato una regressione, qualunque apertura un corrompimento: si può dire che veramente si sfiorò il capolinea di quell’ultimo quadro che Ad Reinhardt si sforzò per tutta la vita di dipingere. La macchina della pittura era stata decifrata, commentata, indagata in tutti i suoi risvolti. Lo stesso accadde nella letteratura, con il romanzo, che lo sperimentalismo di quegli anni ridusse al suo grado zero, a mero ingranaggio significante.
Ma già Filiberto Menna, che di quella temperie culturale fu in Italia la personalità critica di riferimento, segnalò, anche nelle pratiche analitiche più rigorose, comprese quelle minimali e concettuali, la possibilità di un controdiscorso che, sfuggendo alla rigidità delle codificazioni metodologiche, arricchiva in modo imprevisto i risultati da esse conseguiti⁴. Più recentemente Rosalind Krauss, riprendendo da Walter Benjamin il concetto di inconscio visivo, ha del resto messo in evidenza smagliature prima inavvertite fin nelle griglie concettuali delle avanguardie⁵.
Proprio da queste fessure entro la compattezza epistemica, da questi strappi, da questi debordamenti di forze della “redingote mathématique”⁶, da queste aperture nella mathesis, intesa come scienza dell’ordine calcolabile⁷, qualcosa prende respiro, dei campi di forza si fanno strada, e anche le contraddizioni portano a ripensamenti e ripartenze.
Una mostra come Continua la pittura vale allora, in questa prospettiva, come strumento per saggiare il terreno e tastare il polso, per verificare se e come i giochi si siano riaperti, capire i nuovi sviluppi, presagire ulteriori svolgimenti.
Archivi alla mano, quattro di questi artisti (Cacciola, Olivieri, Verna e Zappettini) sono stati indubbi protagonisti della stagione analitica, mentre gli altri, pur rifacendosi a istanze, problemi e presupposti condivisi con gli esponenti del gruppo storico, per ragioni anagrafiche non si possono considerarne parte. S’incrociano così diversi segmenti d’esperienza, e possiamo assistere al confronto di pratiche sviluppatesi da punti di partenza tra loro distanti nel tempo, con cronologie ora accelerate, ora rallentate.
Il punto fermo è quello di una pittura pensata, limitata nei suoi elementi costitutivi – supporto, superficie, colore – interrogata nel momento stesso della sua messa in opera.
D’altro lato, oggi più che mai, la pittura è tenuta sotto osservazione dalla stessa ricerca filosofica, candidandosi non più solo come oggetto di una valutazione estetica, ma come parametro d’indagine. La pittura, pur essendo un mondo a sé, al contempo si schiude come un orizzonte per la speculazione, come campo di verifica delle idee filosofiche⁸.
“Le idee filosofiche – dice Adorno – sono centri di forza. Là dove appaiono riescono a trascinare in sé l’ente come un vortice, a cristallizzarlo e a conferire una struttura a tutto ciò che è”⁹. Ora, dal canto suo, non potrebbe la pittura condurre verso l’enucleazione di consimili centri di forza, capaci di cristallizzare, di strutturare questa realtà liquida che stiamo vivendo, riuscendo a restare, del pari, fuori della rappresentazione?
Cade a proposito nella memoria, trattandosi di accentramenti di forze, un’osservazione di Pavel Florenskij, che ci suggerisce come, paradossalmente, una pittura aniconica potrebbe trovare consonanze impreviste con proprietà che sono consustanziali all’icona, nella quale, non a caso, linee e campi di forza agiscono in sommo grado. Così, secondo il grande teorico russo, dovendosi raffigurare un magnete, i colori darebbero conto solo del metallo, ma per esprimere il campo di forza che del magnete è la proprietà invisibile, è necessario ricorrere all’oro, il quale, rappresentando la potenza divina, è senza oggetto. L’oro irradia la luce, ma di per se stesso è opaco: così Dio, seppur si manifesta come luce, è inaccessibile nella sua essenza¹⁰. Teniamo a mente questa opacità dell’oro e confrontiamola con un’intuizione di Douglas Crimp, un altro dei teorici che tennero a battesimo, in qualche modo, la pittura analitica. In Opaque Surfaces egli parla appunto di pittura opaca, “dove per opacità intende la caratteristica della superficie di significare se stessa, come era avvenuto fino al XIV secolo, prima dell’avvento dell’illusionismo spaziale e del declino delle superfici d’oro, porzioni di spazio puro, senza altri intenti o rimandi”¹¹.
Chissà che oggi quello spazio puro non possa venir perseguito ricaricandosi di tutte le inquietudini custodite dalla fede ortodossa.
In un mondo di accelerazione dromoscopica, di abbagliante luminosità telematica, l’opaco, di fronte all’orgia del visibile e all’abbaglio dei nuovi media¹², potrebbe essere di nuovo l’unico tramite sull’inaccessibile. Forse, invece di accecarsi nell’ipervisibilità, l’artista potrebbe riservarsi l’alternativa di esplorare le dinamiche di forze invisibili.
Ci si deve dunque vergognare, oggi, di praticare la pittura? O non è proprio in questo voler inseguire la velocità dei media, in questo tentativo di stare al passo della tecnologia, che l’arte contemporanea tradisce la sua ormai costituzionale “vergogna prometeica”?¹³
Ma ancora, non potrebbe levarsi, da qualche parte, l’accusa, nei confronti di questa pittura, di essere non solo obsoleta, ma anche anti-relazionale, visto il risalto che oggi viene dato a questa attitudine dell’arte?¹⁴ Come rispondere a questa ulteriore contestazione?
Ora, che cosa significa relazionarsi, chi meglio del celebrato autore della Poetica della Relazione, potrebbe dircelo? E non afferma Édouard Glissant che “chiamiamo opacità ciò che protegge il Diverso”? Eccoci così al punto cruciale di un pensiero che concepisce le modalità del relazionarsi non più fondate sulla luminosità  e la trasparenza, ma al contrario proprio sulla rivalutazione dell’opacità¹⁵.
[…]
Anche Roberto Rizzo coltiva la lentezza dei procedimenti, sostanziati di tempi intellettuali e materiali, tempi di meditazione e tempi di essiccazione, in un incrocio, in un chiasma che apre una via d’accesso al soggetto umano senza che l’umanità entri in alcun modo nella rappresentazione. La sua pittura dicotomica, che si nutre della insolubile diaspora, in seno al quadro, di immanente e di assoluto, agisce come uno specchio opaco, diventa uno schermo alternativo alla cinematica della realtà, nel quale ciò che si rappresenta non è che l’eterno ritorno della costruzione e della decostruzione.
[…]
Allora, questo ci dicono gli artisti qui presentati, bisogna continuare a dipingere, in questo nostro tempo, per altri tempi; concentrarsi, magari, sugli istanti a venire presagiti da Walter Benjamin, il quale, “colloquiando, si era rifiutato, nonostante la sua disperata arringa per la riproduzione meccanica, di ripudiare la pittura d’oggi: la tradizione pittorica (così sostenne) va tenuta ferma per venir conservata per altri tempi…”¹⁶. In quanto pittori, essi non dispongono che di questi obsoleti, elementari strumenti, qualche colore e una superficie più o meno rigida. La loro sfida è fare l’esperienza  della povertà dei mezzi a loro disposizione, per sporgersi oltre il dicibile. Ma non è questa anche la sfida della parola letteraria ai picchi della modernità, da Hölderlin a Beckett? Chi volesse rivelare ad altri l’indicibile, dovrebbe “parlare con lingua d’angelo”, o piuttosto fare l’esperienza della “povertà delle parole”¹⁷. Eppure, anche se “sono parole, non c’è che questo, bisogna continuare, è tutto quello che so…”¹⁸: se il poeta confinato nella sua torre supera il limite estremo della ragione per aver ragione dell’inopia del linguaggio, il personaggio protagonista de L’Innomable non trova risposte, smarrisce i significati, la sua personalità è ridotta a linguaggio senza senso, eppure, prima che arrivi il “lungo istante” del silenzio dice: “il faut continuer”.
Bisogna continuare, in questa opacità originaria che nasconde in sé un presentimento di chiarezza nell’accecamento del presente. “D’int’ubagu, dal fondo dell’opaco io scrivo, ricostruendo la mappa d’un aprico che è solo un inverificabile assioma per i calcoli della memoria…”: questo è il messaggio che ci consegna Italo Calvino¹⁹. La postazione dell’opaco è il rovescio dell’aprico, del soleggiato. Ma per noi, oggi, potrebbe essere il rovescio di questo eccesso di mondo²⁰ che ci pervade, dell’abbaglio omologante che ogni giorno che passa si accende di sempre nuove lusinghe. Non è neanche una soglia: forse solo una promessa, un raccoglimento, la ricerca di una nuova origine per uno sguardo a venire.
Del resto, “durasse ancora milioni di anni, il mondo, per i pittori, se ne resteranno, sarà ancora da dipingere”²¹.

 

1. Cfr. catalogo Prague Biennale 4, Giancarlo Politi Editore, Milano 2009, p. 74.
2. Cfr. Filiberto MENNA, La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, Einaudi, Torino 1975, p. 8.
3. Cfr. Alberto RIGONI, catalogo Le superfici opache della pittura analitica, Fondazione Zappettini, Chiavari-Milano 2009, pp. 12-16.
4. MENNA, op. cit., pp. 96-103.
5. Cfr. Rosalind KRAUSS, L’inconscio ottico, a cura di Elio Grazioli, Bruno Mondadori, Milano 2008.
6. Georges BATAILLE, “Informe”, in Documents, n. 7, 1929, p. 382.
7. Michel FOUCAULT, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967, p. 87.
8. Vedi a questo proposito Andrea PINOTTI, Estetica della pittura, Il Mulino, Bologna 2006, e Marco VOZZA, Forme del visibile. Filosofia e pittura da Cézanne a Bacon, Pendragon, Bologna 1999.
9. Th. W. ADORNO, Il concetto di filosofia [1952], Manifestolibri, Roma, 2006, p. 98.
10. Cfr. Giuseppe DI GIACOMO, Icona e arte astratta. La questione dell’immagine tra presentazione e rappresentazione, “Aesthetica Preprint”, n. 55, aprile 1999, Centro Internazionale di Studi di Estetica, Palermo, pp. 28-29.
11. RIGONI, op. cit., p. 8.
12. Cfr. Paul VIRILIO, L’arte dell’accecamento, Cortina, Milano 2007.
13. Per questo termine, coniato da Günther ANDERS, vedi L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
14. Sull’arte relazionale vedi ad es. Nicolas BOURRIAUD, Postproduction, Postmedia, Milano 2004.
15. Cfr. Édouard GLISSANT, Poetica della relazione. Poetica III, Quodlibet, Macerata 2007.
16. Cit. in Th. W. ADORNO, Teoria estetica, a cura di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1975 (1970), pp. 452-453.
17. Friedrich HÖLDERLIN, Eleusis, cit. in Giorgio AGAMBEN, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino 1982, p. 16.
18. Samuel BECKETT, Trilogia. Molloy, Malone muore, L’innominabile, Sugar, Milano 1965, p. 441.
19. Italo CALVINO, Dall’opaco, in Romanzi e Racconti, Mondadori, Milano, vol. III (1994): Racconti sparsi e altri scritti d’invenzione, pp. 89-101.
20. Günther ANDERS, Eccesso di mondo. Processi di globalizzazione e crisi del sociale, Mimesis, Milano 2000.
21. Maurice MERLEAU-PONTY, L’occhio e lo spirito [1964], SE, Milano 1989, p. 62.