Giovanni Maria Accame, “Roberto Rizzo, processi non oggetti”
Testo nel catalogo della mostra Roberto Rizzo – Paintings, Grossetti Arte Contemporanea, Milano, Gennaio 2003
L’idea di pittura che ci propone Roberto Rizzo è l’idea di un’osservazione trasformata e trasformatrice, un’osservazione che ha trovato nella pratica riflessiva lo strumento con il quale condurre realtà differenti a un confronto, che può originare un contrasto, una contaminazione o un futuro ricordo. L’esperienza della pittura americana degli anni cinquanta e le successive indicazioni della pittura radicale, compresa l’analiticità degli anni settanta in Europa, sono per questo artista un sicuro riferimento, ma sarebbe profondamente restrittivo e fuorviante pensare a questa come l’unica fonte di una formazione assai più articolata.
Una delle maggiori differenze che distingue la cultura e il modo di intendere il proprio lavoro, tra la generazione più giovane di artisti e quelle precedenti, è rappresentata proprio dalla variegata difformità degli interessi e dei rimandi che è oggi una caratteristica comune, rispetto a una più definita linearità di attenzioni che si poteva cogliere nelle generazioni più anziane. L’irregolarità con cui, anche lo sguardo di Rizzo, si è mosso e si muove su cose diverse e non obbligatoriamente d’arte, non gli impedisce d’avere assunto dei metodi d’indagine e delle condotte di lavoro esigenti e, in qualche caso, anche intransigenti.
È certo questo modo di porsi, interrogante e riflessivo, che gli permette di afferrare e connettere i diversi tracciati dell’esperienza entro un campo coerente d’indagine pittorica. Gli stimoli e le immagini, qualunque sia la loro provenienza, si trasformano nel linguaggio che Rizzo ha maturato negli anni. Un processo, quello del suo lavoro, che si è evoluto con determinazione, ma certo non senza difficoltà. Segnalatomi da Carmengloria Morales, ho frequentato lo studio già dal periodo in cui aveva da poco terminato l’Accademia di Brera. La tendenza a scegliere le soluzioni meno prevedibili e, in particolare, a generare delle situazioni di contrasto, conducevano i suoi quadri ad affrontare ogni volta delle battaglie ostinate. Anche nelle prove di quei primi anni, la pittura si formava attorno a un’idea e se quest’idea era ritenuta necessaria, non poteva essere accantonata perché ardua.
Di quell’impostazione originaria è rimasto molto, perché appartiene al carattere dell’artista, al suo modo d’essere. È però assai mutata la capacità di controllare le contrapposizioni interne. Ogni scelta, nella pittura come nella vita, comporta delle esclusioni. Per quanto si pensi di costruire aggiungendo, è sempre più ciò che escludiamo che ci fa procedere nella nostra costruzione. Ora Rizzo sa escludere quanto sarebbe d’impedimento alla comprensione delle sue idee. Sopra tutto ha dato spazio al vuoto come elemento essenziale per guidare lo sguardo e rendere possibile il pensiero. Senza il vuoto non accadrebbe nulla di ciò che accade. E, nei lavori attuali, il senso dell’accadere fa da sfondo a ogni altra percezione. La forma del supporto, contrasti e relazioni tra le parti, le interruzioni della superficie, tutto contribuisce a predisporre un accadimento che concentra in sé le intenzioni dell’artista. Questa non è certo una pittura che si coagula attorno a umori improvvisi e transitori, l’idea che la precede richiede il tempo e lo spazio di cui necessita una figura che nasce prima nel pensiero e poi nello sguardo. Una concettualità della pittura che dopo Reinhardt e Ryman, è oggi presente in molti protagonisti di quest’area di esperienze, da Knoebel ad Halley, e con la quale Rizzo, che ebbe per docente Carmengloria Morales, si confrontò molto presto.
È sicuramente l’idea del limite che ha prevalso nel lavoro degli ultimi due anni, precisandosi ma anche arricchendosi di ulteriori risvolti problematici. Partendo dai concreti confini che ha ogni opera di pittura, da quello spazio del quadro, idealmente assoluto ma in realtà fisicamente relativo, come dice lo stesso Rizzo, è pervenuto ad altri margini, delle cose e delle idee. Arrotondare gli angoli, è allora un modo per accentuare la particolarità del discorso artistico, ricordandone la storia ma anche l’oggettualità. Il confine del quadro diviene qui un luogo dove s’incrociano storia e fenomenologia. La sagomatura della superficie è testimone di tutte le forme storiche assunte dalla pittura nei secoli e, nel medesimo tempo, segno di una fisicità in atto, che si colloca nel nostro stesso spazio di vita, entro il raggio della nostra percezione. Storia e attualità fanno parte di un rapporto con l’arte contemporanea, che non può che essere particolare, immerso nella soggettività del vivere una propria esperienza.
È forse per reagire a un eccesso di emotività individuale che Rizzo agisce intenzionalmente su due distinte figure archetipe della pittura: il monocromo e la movimentazione dell’impasto cromatico. Due momenti che, nella realizzazione dei suoi lavori, svolgono dei precisi ruoli. La monocromia fredda, impersonale, solo alcune volte percorsa da lievi vibrazioni, vuole creare uno spazio di decantazione, visiva e mentale, che acuisca l’attenzione di chi guarda. In questo silenzio, che è già esso stesso un importante momento dell’opera, prende corpo la seconda figura. Una figura a questo punto necessaria e, di conseguenza, anche fortemente simbolica. La stesura pittorica che si addensa in queste forme circoscritte, mai debordanti, ritagliate anzi con contorni netti, racchiude tutto il sentimento del fare pittura. Ne deriva, così almeno appare ai miei occhi, una poeticità lieve, priva di forzature. La costruzione concettuale che presiede questi lavori, non impedisce il costituirsi di un’espressività interna, tenuta volutamente su registri misurati, ma proprio per questo più resistente nel tempo e maggiormente penetrante nel nostro pensiero.
C’è un ulteriore elemento che ho già ricordato e non può essere trascurato: la presenza, non assoluta ma prevalente, di un’interruzione, una sospensione della superficie che si divide pertanto in due parti. Un intervento, questo, che non vuole avere la drammaticità della lacerazione e nemmeno la programmata ripartizione del dittico.
L’interrompere la continuità del piano ha la funzione di creare un’apertura, una soglia che permette di attraversare il quadro non solo orizzontalmente, ma anche verticalmente. Il vuoto che si inserisce nello spazio della pittura, non è da intendersi solo come un’uscita dalla sua unitarietà, ma anche un’ideale escursione oltre il suo fondo.
Quell’improvvisa assenza della superficie non ha, infatti, il carattere di un vuoto generico, ma di un’assenza determinata, che deriva da un preciso atto di sottrazione. Ecco perché il vuoto è sì una pausa percettiva, un’ulteriore constatazione dei limiti oggettuali dell’opera, ma è anche presenza di un’assenza. È confine simbolicamente denso di significati, proprio perché contenitore d’ogni possibile divenire.
Non è forse senza qualche sorpresa che, dopo aver osservato attentamente il lavoro di Rizzo, ci si accorge come ogni suo atto così formalmente compiuto, viene messo in discussione da un altro intervento con opposte caratteristiche. L’equilibrata armonia che appare in queste opere è in realtà frutto di una continua tensione tra forze contrapposte. È probabilmente in questo modo di procedere che l’artista riesce a toccare il limite, secondo quanto ha dichiarato di voler fare. Così facendo, infatti, mostrando di ogni cosa il confine, afferma il concetto di come nessun elemento, materiale o immateriale che sia, possa essere totalmente autonomo, possa esistere in sé. E, dunque, dietro alla permanenza dell’immagine vi è lo scorrere della sua concezione, quella stessa che, nella concreta presenza del quadro, non vede un oggetto ma un processo.