Intervista di Angela Madesani
Qual è il futuro dell’arte astratta?
Intervista di Angela Madesani, “Artribune”, www.artribune.com, 22 ottobre 2020
In provincia di Como ha aperto una mostra che vede protagonisti due pittori, due astrattisti: Marco Grimaldi e Roberto Rizzo. A curarla è Angela Madesani, qui in un dialogo a tre. Per ragionare sul futuro di quel che non è figurativo.
Angela Madesani: In occasione della mostra presso lo spazio 56, che propone le opere di due intelligenti protagonisti della pittura italiana, Marco Grimaldi e Roberto Rizzo, invece di dare vita a un testo critico, ho pensato di avviare una conversazione a tre, un dialogo virtuale1. Forse proprio perché lontana dalla contemporaneità, dall’abituale quotidianità artistica, mi è piaciuto partire da lontano, dalla storia dell’arte del XVII secolo, storia dell’arte che nel nostro momento storico, viene, per molti versi, posta, da chi si occupa di contemporaneità, in una zona di oblio.
Secondo quanto riporta Vincenzo Giustiniani, amatore d’arte, collezionista e amico di Caravaggio, nella sua Lettera sopra la pittura (1620), l’artista era solito dire: «Tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, come di figure». Un’affermazione di portata eversiva per quel particolare momento storico, che metteva sullo stesso piano la pittura sacra, di storia e di oggetti. La differenza non sta nel contenuto, nell’oggetto della pittura, ma nella qualità della stessa. La pittura si divide in buona pittura e cattiva pittura.
Sono passati quasi quattro secoli da questa potente affermazione ma mi pare che essa possa essere ancora attuale. Cosa ne pensate, con riferimento alla vostra scelta poetica?
Marco Grimaldi: Mi piace moltissimo questa affermazione, fin dai tempi del liceo, quando la sentii per la prima volta. Mi riporta a un’altra affermazione, di Leonardo da Vinci: la pittura è cosa mentale. Credo che la pittura oggi abbia limato molto le distinzioni e le ideologie che la nutrivano nei tempi passati: la figurazione, la geometria, l’informale… oggi la pittura si muove su posizioni più orizzontali, non credo che esistano più ideologie legate ad appartenenze, la ricerca è volta verso la qualità e verso la possibilità di muovere minimi equilibri, che possono portare a cambiamenti radicali.
Credo che nel mio caso l’atteggiamento orizzontale sia evidente nella ricerca di questa luce, che da tempo mi ossessiona. Passo da lavori più evocativi ad altri completamente astratti, quasi analitici. Non sono mai riuscito a spiegarmi tutto questo fino in fondo, è una cosa che mi appartiene con cui ci faccio i conti ogni giorno, la concentrazione è sempre volta lì, in quel punto, dove la luce confina con il buio ed è la cosa che mi costa quella fatica, che viene descritta da Caravaggio.
Roberto Rizzo: Bella domanda, andiamo subito al centro della questione. La frase di Caravaggio sarà sempre attuale, fino a che esisterà la pittura e quindi il genere umano.
L’affermazione sembra sorprendente perché è opinione comune che l’arte del passato perseguisse il realismo, che però è un concetto moderno di origine positivista, che ci fa vedere l’arte antica in modo distorto.
Giustiniani nella stessa lettera elenca dodici modi di dipingere in una scala di difficoltà tecnica che non si riferisce alla capacità di rappresentare il reale, ma a quella di eseguire un dipinto “di maniera”, vale a dire con padronanza del mezzo linguistico.
Ciò che ne consegue è che quando diciamo giustamente che la pittura si divide in buona pittura e cattiva pittura ci dobbiamo, poi, chiedere in che cosa consista la qualità di un’opera. La questione è particolarmente difficile oggi che il termine qualità, nell’arte, è un tabù, perché viene associato all’accademismo. Ma se manca la riflessione sulla qualità nell’arte contemporanea, la selezione viene affidata solo all’arbitrio del mercato.
Forse dovremmo riconsiderare il concetto di “maniera” e vederlo in una nuova prospettiva, come capacità di “reinventare il medium”, per dirlo con le parole di Rosalind Krauss.
In relazione al mio lavoro mi viene in mente che l’arte astratta o aniconica è diventata, negli ultimi anni, un genere tra i tanti linguaggi che compongono l’offerta commerciale nel mercato dell’arte. Questo accade perché abbiamo perso il nostro rapporto con la dimensione storica dell’arte e la sua memoria, che non si può ridurre a citazione ma è qualcosa di più profondo e strutturale.
Così non ricordiamo più che l’arte astratta è nata per smontare le sovrastrutture dell’opera e svelare le sue strutture, per superare il livello rappresentativo e mostrare direttamente quello presentativo. Quel livello sotterraneo e fondamentale che è sempre esistito anche nelle opere rappresentative e ci permette di guardare le opere antiche come se fossero astratte.
Ma per ricordarci di questo dobbiamo recuperare il rapporto con la dimensione storica dell’arte, intesa non come evoluzione ma come processo, che abbiamo abbandonato quando ci siamo persi nel labirinto postmoderno dell’eterno presente.
A.M. Roberto, il tuo intervento apre molte riflessioni. Intanto fai riferimento al mercato che, nel nostro tempo, pare essere l’arbiter imprescindibile delle situazioni. Se un artista si vende è bravo, altrimenti no. Non parliamo poi dei cosiddetti coefficienti, che da almeno quattro decenni vessano il nostro mondo. Un teatrino che provoca competizioni sempre più vuote.
M.G.: Per quanto riguarda il tema del mercato, posso dire poco perché nel mercato di serie A, come spesso viene chiamato oggi, non ho mai navigato. Penso che i valori commerciali non sempre corrispondano ai valori artistici. Però il sistema funziona così. Di queste cose parlava già Giorgio de Chirico, dopo che aveva smesso di fare i quadri metafisici. Affermava che il mercato era in mano a dei banditi che decidevano chi doveva andare e chi doveva essere seppellito. Credo che questo, tuttavia, non debba essere un problema, il pittore deve credere fermamente in ciò che fa. Deve avere ben chiaro in che direzione vuole andare e in quale spingere il suo lavoro. Poi ci sono le strategie e quelle sono attualmente un’arte più importante della qualità delle opere.
A.M.: Vorrei tornare sul concetto di Rosalind Krauss, che parla di reinvenzione del medium. Reinvenzione o anche superamento dello stesso, nella sua specificità?
E dunque l’idea dell’arte astratta che giunge all’essenza dei fenomeni, un concetto che mi pare quanto mai auspicabile, Mark Rothko, scomparso ormai cinquanta anni fa, in tal senso ci ha dato una lezione straordinaria.
Mi piacerebbe tornare sul tema che chiude il tuo intervento Roberto, la dimensione storica non intesa per forza in senso evolutivo, ma processuale.
A che punto vi collocate all’interno di questo processo?
R.R.: La centrifuga culturale e semantica nella quale ci troviamo da anni è uno dei motivi per cui per tanti artisti è più facile saltare da un medium all’altro raccontando aneddoti piuttosto che ripartire dalle basi del linguaggio in modo analitico.
I paradigmi della nostra epoca vanno rifondati, un singolo artista come me può fare poco, ma quel poco bisogna provare a farlo.
In gioventù ho avuto una formazione pittorica analitica dagli artisti della generazione precedente la mia, che ho conosciuto e che erano fortemente ideologizzati. Ho scelto di ereditare non uno stile pittorico ma degli strumenti critici da gestire in autonomia. Per questo trovo che agganciarsi acriticamente a movimenti artistici del passato, come fa qualcuno oggi, non abbia alcun senso. Il mondo nel quale ci troviamo è completamente diverso da quello di cinquant’anni fa e l’approccio analitico deve essere necessariamente aggiornato.
Tante cose non sono più scontate come una volta. Il quadro, per esempio, non è più lo spazio sacro della pittura, la sua dimensione assoluta va cercata e riformulata ogni volta, in modo dinamico. L’assoluto oggi si trova dentro il relativo e non viceversa, come un tempo.
In questo senso la memoria storica è indispensabile, per capire dove ci troviamo e cosa stiamo facendo. Non c’è mai stato progresso nell’arte. Non ha senso fare una classifica tra Giotto, Michelangelo, Velázquez, Picasso o Rothko, che hai appena ricordato. Sono fenomeni irripetibili, che hanno dato al loro lavoro una dimensione universale. Deve esistere però, nell’arte, un processo di reinterpretazione del passato e di proiezione nel futuro, una dimensione utopica che dobbiamo provare a recuperare.
La reinvenzione dello spazio del quadro deve partire dalla riflessione sulle sue origini.
Solo in tempi recenti il quadro è diventato, per chi lo contesta, sinonimo di oggetto di mercificazione. L’origine del quadro è la tavola o il telero veneziano, che aveva la funzione di sostituire la porzione di parete che andava a coprire. Il quadro, per sua natura, è superficie architettonica, è la pelle dell’ambiente in cui ci troviamo. È molto di più che un semplice oggetto di arredamento. Come nella Scuola di San Rocco a Venezia dove i teleri sono le pareti e il soffitto dello spazio architettonico.
A.M.: Quanto avviene anche con Caravaggio, solo per tornare al nostro punto di partenza.
R.R.: Il mio lavoro parte sempre dal quadro. A volte diventa installazione, non per superare il linguaggio della pittura, ma per essere altro, nella tradizione dell’opera ambientale. Perché anche l’installazione ha un’origine storica. Ritorno sempre allo spazio convenzionale del quadro, per toccarne i limiti e “reinventare il medium”, appunto. Il superamento del linguaggio pittorico non mi appartiene, perché è una posizione programmatica di chi ha, da tempo, condannato il quadro all’obsolescenza, facendo la guerra alla pittura in favore dei cosiddetti “nuovi linguaggi” che nuovi non sono mai stati.
Questo conflitto non è mai stato risolto, ognuno è rimasto sulle proprie posizioni per fare battaglie di retroguardia. Voglio uscire da questo incantesimo e andare avanti.
Il quadro per me è uno schermo non solo da attraversare, ma al quale ritornare. Intendo, in questo caso, il quadro come una soglia da attraversare, proprio in quanto spazio fisico, e dalla quale rientrare per tornare al punto di vista dell’osservatore. Lo stesso taglio di Lucio Fontana è, contemporaneamente, attraversamento e segno pittorico, realtà e rappresentazione (una riflessione sulla rappresentazione espressa con un linguaggio astratto e minimale).
Le avanguardie artistiche del Novecento, in forme e modi diversi, hanno decostruito tutti i linguaggi dell’arte fino a raggiungere il punto zero. A quel punto si è parlato di fine della storia. Oggi bisogna “ricostruire la decostruzione”, come ha scritto il filosofo Maurizio Ferraris2, perché la storia si è rimessa in moto nostro malgrado. Lo vediamo bene in questi giorni.
M.G.: Come si fa a non essere in completa sintonia con quello che dici, Roberto, solo un vero pittore può fare un ragionamento come il tuo. A differenza tua, però, che porti la pittura all’estremo facendo pensare che probabilmente vuoi superare questo medium, ma che, invece non lo vuoi affatto, io rimango ancora e volutamente all’interno del quadro cercando di vederlo sempre come un corpo, un corpo pulsante che con la sua forza conquista lo spazio calamitando verso di sé tutta l’energia possibile.
A.M.: Roberto cosa intendi per nuovi linguaggi?
R.R.: I cosiddetti “nuovi linguaggi” sono un equivoco lessicale, frutto di una mistificazione a uso strumentale, conseguente al conflitto tra gli ultimi movimenti d’avanguardia artistica, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso.
Il precario equilibrio culturale nel quale da allora si trova l’arte è il risultato di un compromesso, fondato sulla coesistenza tra due concetti inconciliabili: rivoluzione e mercato. Alla prima è stata affidata la retorica del messaggio finto-trasgressivo, al secondo la struttura delle strategie speculative.
Mentre gli pseudorivoluzionari poveristi diventavano i campioni di quel mercato che, da giovani, dicevano di voler distruggere, coloro che avevano riformulato la grammatica dei linguaggi artistici tradizionali, venivano, malgrado ciò, bollati come reazionari in quanto pittori e scultori. Intanto la fotografia, il video, la performance e l’installazione trovavano giustamente il loro spazio, venendo, però, presentati come “nuovi” linguaggi sostitutivi di quelli “vecchi”, come se non avessero avuto radici storiche proprie.
Non è un caso che, in questo contesto, il curatore di mostre si sia sempre più rivelato come un promotore senza basi critiche o storiche solide.
Ultimamente la pittura e la scultura sono tornate di moda, ma troppe volte solo come fenomeni commerciali, senza coraggio né profondità di pensiero.
A.M.: Infatti in un contesto di questo tipo è assai più importante la comunicazione, la promozione soprattutto a livello mercantile, che non il pensiero e lo studio della storia e della contemporaneità dell’arte. Solo da relativamente pochi anni è emersa la figura del curatore, che, almeno a parole, avrebbe sostituito lo storico e il critico. Mi pare una situazione di un grande conformismo pseudo-culturale che cerca audience, followers nella rete, nei blog. E non mi si prenda, in tal senso, per una reazionaria, anzi. Credo che l’arte necessiti di riflessione, di studio, di tempi lunghi di osservazione proprio per comprenderla anche nella sua portata eversiva. Gli artisti, quando davvero tali, e la storia ce lo dimostra, hanno analizzato i fenomeni, le problematiche anche sociali e politiche, assai prima della cosiddetta società civile. Gli Earth Artists, solo per fare un esempio, hanno compreso i problemi dell’ecologia molto prima che la società lo facesse. Anche da un punto di vista politico l’arte è riuscita a scardinare dei meccanismi malati e perniciosi, anche a costo della persecuzione. L’arte può anche fare paura, non dimentichiamocelo.
Penso che la strategia, da un punto di vista pragmatico sia sempre stato un punto determinante dell’arte. Tuttavia mi pare che riguardi solo l’hic et nunc. Palla Strozzi scelse Gentile da Fabriano, ma con una visione storica ad ampio raggio, la rivoluzione l’ha fatta Masaccio e non Gentile. L’ha fatta Caravaggio e non il Cavalier d’Arpino. Così è andata per il concorso del 1401. Insomma bisogna dare tempo al tempo. Quando la microstoria esce di scena vi entra la macrostoria, che fa i conti, senza influenze strane di gruppi e conventicole. La storia dell’arte delle avanguardie insegna. Quando penso a queste cose mi vengono in mente il grandissimo Arshile Gorky e la sua sfortunata vicenda terrena. Pensiamo alla considerazione che la storia dell’arte riserva oggi al suo lavoro.
R.R.: Infatti queste sono le regole del gioco e nessuno le può cambiare, non lo ordina il medico di fare l’artista. Come diceva giustamente Marco, un artista deve credere fermamente in quello che fa. Il suo orizzonte è la macrostoria, non la microstoria. Lo stesso Caravaggio, che oggi è considerato come uno dei più grandi pittori della storia, grazie alla rilettura di Roberto Longhi, sino all’inizio del XX secolo era considerato un minore. La storia è un campo dialettico in continua trasformazione e gli artisti, con il loro lavoro, provano a essere parte attiva di questa dialettica.
Tornando un passo indietro, come dicevo, non credo al superamento della pittura, che per me è solo un artificio retorico. Ciò che mi interessa, piuttosto, è non dare nulla per scontato. La logica della pittura, per essere credibile, deve, necessariamente, ogni volta partire da zero. Dipingere un quadro significa stendere del colore su una superficie bidimensionale. Questo supporto può essere continuo e uniforme oppure contenere un’assenza. Là dove il mio gesto incontra l’assenza della superficie io dipingo nel vuoto. Questa parte del mio agire, questa porzione della mia esistenza c’è stata, ma non è stata registrata. Viene così ricostruita da chi guarda il quadro ed è in continua trasformazione come quel campo dialettico di cui parlavo prima.
Da qualche anno dipingo, oltre che sulla tavola di legno, anche sulla cartacemento, una specie di pietra artificiale che faccio io. La sua superficie porosa e frammentata, mi ricorda gli affreschi antichi, talvolta lacunosi, la loro stratificazione materiale e temporale, la memoria che ancora conservano, la memoria che è stata rimossa e che cerchiamo di ricostruire. La superficie che dipingo è così ricostruzione e reinvenzione dello spazio convenzionale del quadro, proiezione nello spazio e nel tempo passato e futuro. Un’esplosione della gabbia dell’eterno presente in cui ci troviamo.
A.M.: Eterno presente che mi pare possa essere messo in crisi dall’epidemia che stiamo vivendo. Ma forse l’illusione del mutamento di prospettive storiche è solo un’illusione.
M.G. Nel lavoro, nella ricerca dei pittori contemporanei cerco sempre di capire come si stia interpretando la pittura e come si riesca, quindi, a trasformarla in un linguaggio originale.
Questo per me vuol dire rapportarsi con la storia, in tal senso non intendo un atteggiamento postmodernista, tipico degli anni Ottanta. In quel periodo molti artisti navigavano nella storia cogliendo qua e là ciò che poteva interessare loro o che poteva far loro comodo per poi mescolarlo, dando vita a furbi lavori citazionisti, altri invece, e ce ne sono molti, dalla memoria hanno saputo reinventare un linguaggio evolvendo anche il medium pittorico. Oggi è indispensabile trovarsi un “posto” e da lì ripartire per formulare un linguaggio che faccia i conti con l’evoluzione continua dei media. Credo che questa sia una possibile strada, per me l’unica, per ricostruire la decostruzione.
A.M.: Marco le tue affermazioni sono molto forti e ovviamente hanno a che fare con il concetto di reinvenzione del medium coniato da Rosalind Krauss.
Vorrei chiedere a entrambi di rispondere a una domanda alla quale Marco fa riferimento nella sua ultima risposta: qual è dunque il posto che vi siete ricavati?
M.G: Non so che posto io sia riuscito a ricavarmi all’interno del panorama artistico contemporaneo, ogni volta che mi faccio questa domanda entro in crisi, però continuo a credere che, come ho già detto, dalla memoria si possa sempre ripartire per poter muovere la direzione del lavoro, questa è la cosa che mi spinge a entrare ogni giorno in studio.
R.R.: Per quanto mi riguarda, ciò che desidero è ricostruire spazi e forme che contengano in sé, senza rimuoverla, l’esperienza decostruttiva dell’arte del Novecento. Il processo di decostruzione dello spazio dell’opera è per me un passaggio inevitabile in quanto appartiene alla mia formazione umana e culturale. Ma poi, ricostruire la forma decostruita, diventa indispensabile per uscire da questa condizione irrisolta e sospesa nella quale ci troviamo da troppo tempo.
A.M.: Da storica dell’arte, da studiosa, credo che il posto che vi spetta sia di tutto riguardo. Siete due artisti significativi dell’attuale panorama pittorico italiano e non solo. Non a caso questa mostra, questo dialogo sulla pittura, ospita proprio i vostri lavori in un luogo appartenente a persone, la famiglia Pozzoli, che da anni ama e colleziona la pittura con attenzione e spirito di osservazione.
1. Siamo nella primavera del 2020 e tutta l’Italia è bloccata nelle proprie case a causa dell’epidemia COVID 19.
2. M.Ferraris, Ricostruire la decostruzione: Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Bompiani 2010.
https://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2020/10/mostra-marco-grimaldi-roberto-rizzo-como/