Intervista di Federico Sardella

Catalogo della mostra Le figure mancanti, Fondazione Palazzo Bricherasio, Torino, Febbraio 2003

Milano, 19 dicembre 2002

Federico Sardella: Hai cominciato presto a dipingere…
Roberto Rizzo: Sì, nel 1985, ancora facevo il liceo. Ho avuto la fortuna di avere come insegnanti due artisti veri: Carmengloria Morales e Paolo Gallerani.
Le loro lezioni erano molto approfondite, sia dal punto di vista del fare, manuale e concreto, che da quello teorico e critico. Per me è stato come iniziare l’Accademia a sedici anni.

F. S.: Sono stati docenti che non solo raccontavano la loro lezione ma parlavano di cose vissute in prima persona, ciò che insegnavano era parte della loro vita quotidiana.
R. R.: In principio sono rimasto affascinato da un aspetto, se vuoi, romantico del loro essere artisti. Poi ho intuito che essere artista voleva dire, in realtà, avere più disciplina di coloro che non lo sono.

“La pittura è una disciplina totale, un modo di pensare e di vivere. Trarne un’essenza scritta mi è sempre sembrato un tradimento.
Dipingo ogni giorno: con il pennello nello studio; con le parole nella scuola dove cerco di insegnare a pensare in termini di pittura. Dipingo in silenzio, nel museo dove cammino con indifferenza, dipingo quando ascolto la musica, quando viaggio. Dipingo quando guardo e dimentico la pittura”.
(Carmengloria Morales in “Filling in the blank…”, a cura di Lilly Wei, Stephen Rosenberg Gallery, New York, 1987)

R. R.: (…) Credo sia importante analizzare le cose e dare loro dei contorni, non per ingabbiarle in limiti che le strozzino, ma per riconoscerle.
Burri fece tanto scalpore per il suo utilizzare sacchi e plastiche e poi in realtà quello che leggi è la loro valenza pittorica.

F. S.: I materiali, oltre ad affermare la loro presenza attraverso elementi quali colori e forme, inevitabilmente rimandano a qualche cosa di altro.
R. R.: La forza di un artista come Burri sta proprio nella capacità di evocare altro, altro oltre la pittura, senza che tutto questo si banalizzi in un suo presunto superamento… ci sono diversi piani di lettura. Fontana con i tagli la pittura non la supera, non la vuole superare, casomai tocca il suo limite, il suo gesto…

F. S.: …minimo e primordiale, efficace e preciso, è un gesto immediato, ma meditato a lungo.
R. R.: Il taglio come il gesto di un samurai, un colpo che deve essere perfetto, dato senza spreco di energie e puntando direttamente all’obiettivo: eliminare l’avversario. Nel gesto di Fontana, ed in quello del samurai, non vi sono indecisioni, perché sarebbero fatali.

F. S.: L’addestramento a cui un samurai si sottopone, prima di essere in grado di scoccare un taglio tanto letale, mi riporta a quella idea di disciplina, a cui prima accennavi, a proposito dell’essere artista.
R. R.: Si, disciplina. Non è per moralismo, ma per maggiore efficacia. Caravaggio per molti è lo stereotipo dell’artista maledetto, violento e selvaggio. Ma quando lavorava sicuramente doveva mantenersi lucido, trovare delle oasi di concentrazione, e questo lo si vede in ciò che ha lasciato.

F. S.: La disciplina è un atteggiamento che prende forma, la si può leggere con chiarezza in una sciabolata inferta con maestria, così come in una tela di Pollock, nonostante la pittura magari appaia incontrollata…
R. R.: Considerare l’azione di Pollock di una libertà senza limiti vuol dire cogliere solo l’aspetto più superficiale e letterario del suo lavoro. Se davvero non avesse voluto regole, le sue tele dipinte a terra, sarebbero state lasciate sul pavimento (e calpestate), avrebbe mostrato il colore colato al di fuori del campo pittorico. Nel prendere la tela, intelaiarla e metterla sulla parete, c’è uno scarto concettuale, una consapevole presa di distanza. Alle tele vengono imposti dei limiti.
I limiti delle forme dipinte all’interno dei miei quadri sono il risultato di un processo mentale. Il fondo monocromo sul quale esse galleggiano vuole essere impersonale, quasi antipittorico. Al contrario, i gesti che strutturano le forme sono la concreta testimonianza di un evento temporale ed esistenziale. Il colore è steso con la spatola e ogni passaggio, piuttosto che coprire quello precedente, lo trasforma. A volte le forme sono interrotte dalla mancanza del supporto: è in quel momento che si rivela la contraddittorietà della pittura. Essa si manifesta nello spazio del quadro, idealmente assoluto ma in realtà fisicamente relativo, parte, per quanto grande, di un ambito spazialmente e culturalmente più ampio, quello del mondo che lo contiene. Per questo, nel passato, la cornice circondava il quadro: per mediare tra un luogo interno ed uno esterno. Per questo i miei quadri hanno gli angoli arrotondati: perché, pur non essendo interessato ad alcuna ricerca decorativa, è per me indispensabile individuare gli elementi di riconoscibilità del linguaggio pittorico e del significato della sua esistenza.

F. S.: L’opera potrebbe fare a meno di una delle attenzioni che le riservi… non so, degli angoli arrotondati?
R. R.: Non spetta a me dirlo… io posso anche giustificare ciò che faccio, ma se questo non risulta convincente per chi guarda, le mie parole sono solamente un alibi. Il quadro, se ne ha la forza, si impone da sé, senza bisogno del mio aiuto.
I dettagli che caratterizzano il mio lavoro non sono elementi fini a sé stessi, ma sono funzionali alla realizzazione dell’opera. Quando un linguaggio artistico è usato in maniera strumentale, come mezzo di rappresentazione, non mi interessa. Questo vale per tutti i linguaggi, non solo per la pittura. Tante fotografie o video che mi capita di vedere vorrebbero essere ironici o trasgressivi, ma io li trovo solo ridicoli, paiono come la rivincita di una vecchia pittura figurativa e accademica. Al contrario, quando l’immagine che vedo si riflette nel mezzo impiegato, allora mi interessa. Io non difendo la pittura in quanto categoria, perché anche essa può fallire nel suo intento quando è illustrativa, se figurativa, o decorativa, se astratta… a questa preferisco un video di Bill Viola o di Marina Abramovic, o un’opera di Joseph Beuys.

F. S.: Se tu facessi delle forme fini a sé stesse saresti un decoratore…
R. R.: … e non avrebbe senso che tu fossi qui a chiacchierare con me.
Non bisogna fermarsi all’aspetto rappresentativo dell’opera d’arte, il linguaggio usato per dire qualcosa potrebbe contraddirne il contenuto o la forma che viene espressa.
A me interessa raggiungere una unità tra ciò che è manifesto e ciò che non appare immediatamente, tra la forma e quello che questa suscita in chi la osserva, tra le differenti pennellate ed i distinti colori.

F. S.: Si individuano due zone di colore sulle tue tavole, diversificate anche da un diverso tempo di esecuzione. Un tempo disteso è quello del fondo (che non è monocromo nonostante l’utilizzo di un unico colore) mentre un tempo concitato è della zona centrale, dove il colore si spande sotto la morsa della spatola. Due aree distinte che pur appaiono come una unità.
R. R.: Il mio gesto con la spatola è fisicamente libero, ma è limitato in uno spazio che io stesso ho definito precedentemente, è la registrazione parziale di un evento più ampio del quale si sono in parte perse le tracce. Io so che idealmente tendo verso un assoluto, ma che la nostra natura di esseri limitati e mortali ci obbliga a riconoscere i nostri confini… Io ad una idea, o a una possibilità, di ampliare lo spazio della libertà non ci credo. Per questo non condivido l’opinione di chi parla di superamento della pittura, trovo che sia un falso problema, o solo retorica. Se qualcuno dicesse di essere più libero di me potrei semplicemente rispondere che i suoi confini, i limiti che definiscono la sua libertà, sono differenti dai miei.

F. S.: Né maggiori né minori, ma solo diversi.
A volte proprio mostrando un limite si afferma l’idea del suo superamento.
R. R.: Spesso chi desidera superare determinate barriere è un illuso, non riesce nemmeno a sfiorarle… il tutto diventa un banale gioco di prestigio. Per me è necessario toccarlo questo confine, perché niente sia scontato.

F. S.: Le forme di cui ti servi hanno un significato?
R. R.: Più che di significato parlerei di funzione. Credo che un’opera d’arte non si debba preoccupare di essere bella, ma di essere funzionale nell’esprimere il suo senso.

F. S.: Il termine funzionale è qualcosa che collego immediatamente ad un pezzo di design, dove la forma è ideata per soddisfare la funzione dell’oggetto.
R. R.: Io non parlo di una funzionalità pratica. La presenza fisica dell’opera è funzionale al suo concetto.

F. S.: È la forma dunque che soddisfa le esigenze del contenuto.
Ad una forma non credo corrisponda un unico significato. Resta vero il fatto che la pittura offre la possibilità di essere guardata in modi diversi, la parola rimanda immediatamente a qualcosa, un dado è un cubo sulle cui facce sono impressi i numeri da uno a sei, può essere un condimento per minestre o casomai una vite… ma poco altro. La pittura, per sua natura offre possibilità svariate di lettura.
Osservando un tuo lavoro, numerose suggestioni possono essere raccolte.
R. R.: Mi sono sentito dire tutto ed il contrario di tutto sul mio lavoro…

F. S.: Forse perché hai ascoltato pareri da persone differenti…
R. R.: Allora qual è la sostanza, la vera essenza del mio lavoro? Me lo domando e visto che non so darmi una risposta esaustiva da solo, la vorrei trovare negli altri. Sicuramente non dipingo solo per me stesso. Lo faccio per comunicare con il mondo.

F. S.: Anche per lasciare delle tracce?
R. R.: Le tracce, come tu le chiami, sono qualcosa che permane. Se guardo oggi un’opera realizzata mille anni fa la sento comunque profondamente familiare, mi sconvolge, mi emoziona; è qualcosa di eterno, attuale in ogni epoca, al di là del suo aspetto narrativo o formale, che è contingente al momento in cui è stata creata. Se così non fosse, un’opera del passato varrebbe solo in quanto documento storico, e non soprattutto in quanto arte. Se non comprendiamo l’arte contemporanea non possiamo neanche comprendere l’arte del passato, crediamo di poterlo fare solo perché quest’ultima si manifesta attraverso un’immagine riconoscibile. Un’opera che resiste si stacca da tutto per divenire qualcosa di assoluto.

F. S.: Un’opera è assoluta poiché, svincolata da condizioni, ha in sé la sua ragion d’essere. Un nucleo spesso incomunicabile, fonte di più e più interpretazioni.
R. R.: Se io dipingo un cerchio che cosa ho fatto? La testa di un uomo, o la ruota di un’automobile, o un gesto che definisce l’ampiezza del mio braccio?
Un individuo in un’opera vede ciò che la propria cultura e la propria natura gli permettono di vedere.

F. S.: Vedere è anche saper guardare attraverso gli occhi degli altri.
R. R.: Bisogna che siano occhi onesti, che appartengano ad un artista che ha dato vita ad un lavoro senza trucchi.

F. S.: Che cosa intendi per trucco?
R. R.: Il trucco è un gioco di prestigio, è l’illusione di una profondità che non c’è.
Trovo che Cézanne sia un artista estremamente onesto, nei confronti di sé stesso e con gli altri. Definisce in maniera molto chiara quelli che sono gli strumenti del suo lavoro. Quando costruisce il quadro lo fa in maniera umile, come fosse un bambino che impara l’alfabeto o i numeri… i singoli elementi si leggono in maniera distaccata ed allo stesso tempo in modo unitario. Il quadro è uno spazio unico, una sostanza unica.

F. S.: Il quadro è uno spazio assoluto ed allo stesso tempo assolutamente relativo.
R. R.: È data da questa apparente contraddizione la grandezza di un’opera.
Una contraddizione è anche il percepire una unità in elementi distinti…

F. S.: Quando venni per la prima volta nel tuo studio, pochi giorni fa, tu mi dicesti: io non rappresento nulla. Come mai questa scelta?
R. R.: Perché non sono obbligato a farlo. Michelangelo rappresentava la Sibilla… anche perché lo voleva il Papa. Quello che dico apparirà banale, ma la pittura astratta nasce con l’avvento della fotografia, credo che rappresentare non sia solo mostrare la realtà delle figure, ma anche quella delle forme astratte. Ci sono artisti poi che rappresentano il quadrato, il rettangolo o il cerchio…
La mia pittura non sfocia in qualcosa di realistico ma le forme di cui mi servo sono reali, come reale era la pittura di Tiziano. Io non sono un pittore astratto, sono semplicemente un pittore perché mi servo degli strumenti della pittura. Affermando questo non invento nulla, Mark Rothko diceva: “non credo ci sia mai stata contrapposizione tra astrattismo e figurazione”…

F. S.: La tua pittura appartiene dunque alla nostra realtà, è una finestra aperta su qualcosa che immediatamente non riconosco ma che mi appartiene.
R. R.: La realtà vorrei mostrartela come tu non la hai mai vista prima, e lo faccio con gli strumenti più antichi che possediamo.

F. S.: Sono strumenti carichi di memoria, che affermano un legame con il passato.
R. R.: Un legame, consapevole o inconsapevole, con il passato, con la storia o con la memoria, c’è in qualunque cosa venga fatta. Io il passato non lo voglio schiacciare o superare, anche perché questo desiderio mai potrà realizzarsi, con il passato cerco un confronto, un artista deve avere il coraggio di fare questo.
Il fatto che io utilizzi le mani per produrre ciò che vedi, mi mette direttamente in contatto con l’uomo del Paleolitico… ci contraddistingue il fatto di chiamare le stesse cose con nomi diversi.
Non credo nell’evoluzione dell’arte, ma in una sua trasformazione.