Roberto Rizzo, “Appunti 2014”

Testo inedito, 2014

«Poniamo dumque da canto la raggione de l’antico et novo; atteso che non è cosa nova, che non possa esser vecchia: et non è cosa vecchia, che non sii stata nova: come ben notò il vostro Aristotele».

Giordano Bruno, La cena de le ceneri, dialogo primo

Fuori dal quadro
Spesso, nei testi dei cataloghi che hanno accompagnato le mostre alle quali ho partecipato, prima di parlare di pittura si considera necessario giustificare il fatto che ci sia ancora qualcuno che pratichi questa disciplina. Se poi l’ostinato soggetto ha meno di 70 anni e fa della pittura il suo unico linguaggio artistico, difenderlo diventa una faccenda davvero complicata.
Come si è arrivati a questo punto? Per chi come me vive per dipingere la questione è troppo importante perché possa essere archiviata con un’alzata di spalle.
A rischio di essere noioso non posso fare a meno di dire alcune cose.
Per cominciare ho sempre dato fondamentale importanza alla definizione delle caratteristiche fisiche dello spazio d’azione, all’interno del quale potere finalmente liberare la mia pittura. La scelta delle norme di riconoscibilità del quadro è dettata dal desiderio di fare chiarezza con il contesto storico e culturale nel quale vivo, mentre il frutto del mio dipingere si rivolge all’intera storia della pittura. Perché la grande pittura non ha mai chiesto il permesso di esistere e non ha mai fatto distinzione tra figurazione e astrazione, ma solo tra buona e cattiva pittura.
Insomma, se non fosse per i becchini dell’arte contemporanea, che hanno preso alla lettera la morte dell’arte hegeliana, con speciale accanimento nei confronti della pittura, io potrei tranquillamente farmi i fatti miei. Ma non posso ignorare quello che succede intorno a me.
C’è stato un momento in Italia in cui il dibattito artistico, come qualunque altro dibattito, è stato condizionato da quello politico-ideologico. Intendo gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. All’inizio deve essere stato molto interessante ma poi è diventata, più che altro, una questione di potere, d’egemonia, prima culturale e poi economica. Si pensava seriamente che in una nuova società ci dovesse essere una nuova arte libera e totale, senza specializzazioni come quella del pittore. La nuova società non è arrivata, ma la nuova arte sì. Non è né libera né totale ma, piuttosto, superficiale e incolta. Negli anni ’80 i campioni dell’arte rivoluzionaria hanno imparato a cavalcare il nuovo mercato dell’arte. Alla pittura è stato permesso di sopravvivere a patto che non disturbasse troppo.
Si dice che la storia la fanno i vincitori. Sono loro che interpretano il passato e costruiscono i paradigmi del presente. Il presente però non è un granché. Forse è arrivato il momento di rivedere alcune cose.
Negli anni ’50 e ’60 Fontana, Burri, Castellani, Lo Savio e altri grandi artisti italiani lavoravano sui limiti spaziali e semantici del quadro. Lo facevano in libertà ma con cognizione di causa. Erano avanguardia perché conoscevano la storia e lavoravano in una prospettiva storica. Poi è arrivata la palingenesi, si diceva che la storia fosse arrivata alla sua fine, che l’arte avesse trovato un’identità definitiva, senza più scontri dialettici, senza memoria, cristallizzata in un eterno presente. Sembrava la realizzazione di un sogno, si è invece rivelato un incubo: la palude postmoderna, il concettuale rococò, il capriccio, l’aneddoto, la citazione, la decorazione fine a se stessa. La parola d’ordine degli ultimi anni, “contaminazione”, non è altro che la parodia inconsapevole e confusa dell’utopia umanistica e della sua versione moderna espressa dalle avanguardie artistiche del Novecento. In questi precedenti storici, però, la coesistenza e la relazione tra diversi linguaggi espressivi non impediva il riconoscimento delle rispettive peculiarità e delle loro caratteristiche inconfondibili e insostituibili.
Mi piacerebbe continuare a percorrere la strada che quei grandi artisti hanno intrapreso, con spirito critico e onestà intellettuale, tornando ad un confronto con la storia che nel frattempo ha ripreso a camminare nostro malgrado.
Il mio progetto “Forma sostenibile” è nato nel 2007 per questo motivo, per il recupero della ricerca estetica e dell’analisi dei processi percettivi di ricostruzione sostenibile della forma decostruita, per un superamento degli accademismi neoformalisti e neoconcettuali di matrice postmoderna.
Questa posizione non rimpiange i dogmatismi della forma moderna ma considera che qualunque tipo di pensiero, per sopravvivere e costruire cultura, debba necessariamente essere veicolato da una forma. Una nuova forma, più adattativa e sostenibile, che non impone un punto di vista assoluto ma che rivendica la legittimità di ricerca dell’assoluto nella realtà materiale dell’arte. La ricerca filosofica italiana degli ultimi anni ha preso atto che la parabola postmoderna è finita, che la realtà non è socialmente costruita ma è una presenza oggettiva che va al di là delle nostre interpretazioni. Credo che l’arte contemporanea italiana trarrebbe beneficio se si svegliasse dal suo letargo e si confrontasse con queste ricerche. Credo anche che la presenza fisica, non virtuale ma reale, di linguaggi antichi come la pittura e la scultura sia utile per un completo riconoscimento di tale realtà.

Nel quadro
Lucio Fontana quando iniziò a fare i suoi “ambienti” non smise di fare quadri. Sapeva bene che una cosa non escludeva l’altra. Le sue dichiarazioni erano spesso piene di dubbi e di autoironia, utopiche ma mai dogmatiche.
Così anche io provo a reinventare il quadro per metterlo in relazione dialettica con lo spazio che lo accoglie. La tavola sulla quale poi dipingerò ha gli angoli arrotondati e i lati smussati. Essi hanno la stessa funzione della cornice nei quadri del passato, quella di mediare tra lo spazio esterno al quadro e quello interno. Il quadro è uno spazio fisicamente relativo ma idealmente assoluto. Spesso c’è una feritoia, una frattura della superficie, una “sincope” nella percezione dello spazio del quadro dalla quale si intravede una striscia di parete. Il rimando a Fontana è esplicito. Come già detto infinite volte lo spazio del quadro si apre all’esterno. Ma è anche vero il contrario: una parte dello spazio esterno diventa parte del quadro. La fenditura – come il taglio – è anche segno.
Fontana non è stato il primo. Lo spazio “altro” nella pittura, trascendente o immanente, c’era anche nei fondi d’oro di Cimabue e nelle parti di tela non dipinta di Matisse.
Non mi interessa superare lo spazio del quadro, quello che mi interessa è indagare i suoi limiti.
Se mi definiscono pittore astratto o aniconico certo non me la prendo. Ma sapendo che le vere ragioni della pittura risiedono nel suo livello riflessivo piuttosto che in quello rappresentativo e considerando l’opposizione figurativo/non figurativo un argomento superfluo, preferisco considerarmi solo un pittore. Non dipingo figure ma, da buon pittore italiano, dipingo corpi. Io li chiamo “corpi aniconici”. Questi corpi sono realizzati stendendo il colore sulla tavola con la spatola, partendo dal colore più scuro fino a quello più chiaro, dal buio verso la luce. Essi subiscono un processo di decostruzione causato prima dalla presenza del vuoto della sincope, che ne mette in discussione la logica costruttiva e percettiva, poi dalla stesura iniziale del colore, che per Barry Schwabsky ricorda «…la modalità delle astrazioni di Gerhard Richter.»¹ Rispetto al grande pittore tedesco, probabilmente anche per ragioni anagrafiche e geografiche, il passaggio successivo di ricostruzione della forma, con la spatola e a mani nude, è per me ineludibile. La forma che ne consegue non si vuole imporre sullo sfondo ma si impegna per integrarsi con questo. Tutte le parti cercano l’unità del quadro.
Voglio dipingere la pittura che viene dopo l’azzeramento della pittura monocroma. Voglio ricostruire, senza rimuoverla, l’esperienza decostruttiva dell’arte del ’900.
I colori che utilizzo e le gradazioni tonali che definiscono questi corpi pittorici provengono dai quadri dei pittori che amo, soprattutto del passato. Mi piacciono i colori della pittura del ’500, in particolare quella dei manieristi. Quei panneggi dai chiaroscuri imprevedibili, spesso elettrici, nei ritratti dove lo sfondo è quasi sempre scuro, tendente al grigio, al verde o al marrone.

 

1. “Dipingere il presente”, Barry Schwabsky, testo nel catalogo della mostra Painting the Present, Barbara Behan Contemporary Art, Londra / Grossetti Annunciata Arte Contemporanea, Milano, Ottobre 2005.