Roberto Rizzo, “In ricordo di G. M. A.”

Testo inedito, 2012. In ricordo di Giovanni Maria Accame

Quando, dieci anni fa, Giovanni Maria Accame scrisse il testo per il catalogo di una delle mie prime mostre personali, ne fui veramente felice. Negli anni seguenti partecipai anche ad alcune mostre e progetti da lui curati.
Lo conoscevo da molto tempo, dagli anni dell’Accademia quando andavo a vedere, ogni volta che potevo, le mostre che curava. Dipingevo ed esponevo già, ma la realtà sua e degli artisti che seguiva mi sembrava irraggiungibile, malgrado ogni volta lo incontrassi fosse sempre molto cortese e disponibile. È stato anche attraverso i suoi testi critici che ho imparato quello che so sull’arte contemporanea e, in particolare, sulla pittura contemporanea.
Strana e suggestiva materia quella della critica d’arte, così concentrata sul presente e sul particolare, al contrario della storia dell’arte, obbligata invece a guardare i fenomeni artistici più da lontano, lungo una parabola temporale molto più ampia. Strana e suggestiva soprattutto quando riguarda un periodo storico particolare per l’Italia, come quello che va dal secondo dopoguerra alla fine del ’900. Un periodo di grandi e vorticosi cambiamenti, non solo artistici o culturali in senso più ampio, ma anche sociali, politici e tecnologici. Dove la visione del passato e la proiezione del futuro sono cambiate innumerevoli volte, obbligando tutti coloro che sono cresciuti in quel periodo storico ad uno sforzo supplementare per tentare di comprendere quanto stesse accadendo.
Non è quindi un caso che l’ultima pubblicazione di Accame, credo con l’intenzione di riassumere le vicende artistiche italiane di quel lungo e articolato periodo, si intitoli La forma plurale – Opere e artisti in Italia 1947 – 2000
Si tratta di una raccolta di testi critici dedicati ad alcuni tra i maggiori artisti italiani contemporanei che, partendo dal particolare, riesce a fornire a chi legge, con la consueta lucidità intellettuale del suo autore, una visione più ampia, una interpretazione davvero utile per comprendere la complessità e le contraddizioni del nostro passato più recente.
Credo che questo fosse dovuto, oltre che ai riconosciuti meriti del critico e saggista, anche alla curiosità e al rispetto che egli manifestava nei confronti delle opinioni degli stessi artisti. Anche dei più giovani, lo posso testimoniare per esperienza diretta.

L’etnologo di fama internazionale Marc Augé riconosce con molta semplicità che una delle cose più importanti imparate negli anni, attraverso lo studio del linguaggio e della sua relazione con le cose, sia «…la necessità e al tempo stesso l’impossibilità di qualsiasi traduzione.»²
L’inconciliabilità delle due condizioni è solo apparente. La volontà di provare a interpretare qualcosa che consapevolmente non si potrà mai spiegare fino in fondo, esprime allo stesso tempo curiosità umana e intellettuale, senso di responsabilità e rispetto per l’oggetto di studio.
Credo che questo atteggiamento si possa attribuire, sia pure in un diverso contesto di ricerca, anche a Giovanni Maria Accame. Il quale, pur essendo consapevole di quanto impermeabile ad interpretazioni letterarie fosse il nucleo dei linguaggi artistici astratti e analitici con i quali si confrontava, non si sottraeva tuttavia al diritto/dovere di tradurre questi stessi linguaggi, così orgogliosamente autoreferenziali, attraverso un’esposizione chiara e profonda, indispensabile per potere avvicinare il più possibile quel nucleo stesso.
Augé dice anche che «tutte le culture si pongono le stesse domande (sulle relazioni tra le persone, sulla nascita, sulla malattia, sulla morte), ma non danno le stesse risposte.»
Questa osservazione si potrebbe associare alla complessità dei nostri tempi.
Curiosamente la spettacolarizzazione dell’arte contemporanea, cominciata negli anni ’80 e corrispondente all’avvento di mezzi di espressione e di comunicazione sempre più sofisticati, ha scatenato la voglia di rivalsa dei nemici dell’astrazione. La vecchia figurazione, di per se né buona né cattiva, come l’astrazione d’altronde, tornava a trionfare con un vestito nuovo, all’ultima moda, mettendo in un angolo la riflessione sulla forma nell’opera d’arte.
Purtroppo qualcuno da allora è convinto che sia stata raggiunta finalmente una dimensione artistica definitiva, espressa da un linguaggio vago con aspirazioni palingenetiche. Mi riferisco a quella tendenza artistica così diffusa oggi che io chiamo “concettuale rococò”*, inevitabile ultimo atto del contenitore artistico postmoderno, che ripete in maniera superficiale e accademica la grande esperienza concettuale che ha attraversato il novecento, che è indifferente al problema della forma, che sceglie con noncuranza qualunque tipo di medium artistico, che quando è trasgressiva è però molto attenta a rimanere nel recinto del “politicamente corretto” e che generalmente titola le proprie opere in inglese, anche se queste vengono esposte a Gorgonzola. Qualche volta utilizza anche qualche quadro o scultura, ma sempre come oggetto d’antiquariato ornamentale.
La parola d’ordine di questi anni, “contaminazione”, definisce nient’altro che una parodia inconsapevole e confusa dell’utopia umanistica e della sua versione moderna espressa dalle avanguardie artistiche del Novecento. In questi precedenti storici, però, la coesistenza e la relazione tra diversi linguaggi espressivi non impediva il riconoscimento delle rispettive peculiarità e delle loro caratteristiche inconfondibili e insostituibili.
Piuttosto questi tempi renderebbero invece indispensabile, sempre di più, una visione che fosse sì plurale ma non superficiale, rispettosa delle peculiarità insostituibili di ogni linguaggio artistico tradizionale, nuovo o presunto tale, ognuno con i propri limiti più o meno ampi. Pittura e scultura comprese. Come ha detto il celebre linguista e teorico Noam Chomsky: «…ogni ambito di conoscenza comporta dei limiti. Ambiti e limiti sono infatti intrinsecamente correlati tra loro: ogni ambito richiede una struttura che impone limiti.»³

La forma plurale – Ci vuole un certo coraggio di questi tempi per parlare della forma. Purtroppo la forma viene spesso associata al formalismo e per questo ignorata o rifiutata. Ci sono delle buone ragioni sul perché questo accade. Possiamo dire che la forma sia stata identificata nel secolo scorso, a torto o a ragione, in arte con l’accademismo, in politica con il conservatorismo. Per questo la forma moderna, dalla seconda metà dell’ottocento e per quasi tutto il novecento, ha subito un processo di scomposizione, di decostruzione, quando non di vera e propria distruzione.
Forse non è un caso che la fine della forma abbia coinciso, più o meno, con la cosiddetta “fine della storia”, tema aperto nel novecento da Alexandre Kojève e rilanciato poi, in maniera strumentale se non propagandistica, da Francis Fukuyama, secondo il quale la storia avrebbe raggiunto il capolinea una volta terminati i conflitti che fino ad allora avevano impedito la costituzione permanente di una determinata società ideale. Mentre in arte, come altrettanto strumentalmente ci viene ripetuto dalla fine del novecento, si sarebbe esaurita la parabola delle avanguardie per arrivare ad un ultimo, finale linguaggio, immateriale e trasversale, fatto di indistinte “contaminazioni”.
Il problema è che però, negli ultimi anni, la storia ha ripreso a correre al di fuori del nostro controllo, riproponendo nostro malgrado forme novecentesche ormai distruttive e velenose.
Questo ci obbliga oggi a riscoprire l’importanza della riflessione sulla forma nell’arte, non per puro formalismo, ma perché indispensabile per la comprensione dei processi artistici, anche quando questi sono di carattere concettuale.
A questo proposito, penso che siano illuminanti alcuni estratti, scritti da Giovanni Maria Accame, dell’introduzione della raccolta di saggi appunto intitolata La forma plurale.
Per esempio: «Sappiamo, dopo Duchamp, quanto si sia ampliata la gamma di valori relativi ai procedimenti impiegati dagli artisti nella realizzazione del lavoro: oggi vi sono artisti che svolgono tutto direttamente, a mano come in digitale, e artisti che demandano totalmente la lavorazione ad altri, sia di manufatti sia di elaborati con diverse tecnologie. Nella forma, dunque, ma anche nelle pratiche che giungono a determinarla, risiede il legame con la storia, le cose e i fatti umani.»
Oppure: «La storia, oggi così poco amata nel sistema dell’arte contemporanea, insegna che non vi è un ordine ma più ordini, che il mondo si riconosce nella diversità e la sua singolarità si fonda proprio sulla pluralità.»
Ancora: «Quando le idee si fanno corpo e immagine, è tramite quella pesante materia o impalpabile digitalizzazione che occorre transitare per accedere a un insieme d’idee espresse nella concretezza della forma.»
Quindi se la forma e la storia hanno un destino in comune, ed è un destino che ci riguarda, forse dovremmo tornare a interrogarci sulla loro relazione.

Pare che l’epoca postmoderna sia finita. Come si chiami quella che l’ha sostituita, quella che viviamo, di preciso ancora nessuno lo sa. Eppure sembra davvero che ci troviamo in un momento di passaggio, di cambiamento. Per esempio, quando penso al distacco di molta arte contemporanea nei confronti della realtà fatta di forme e di materia, a quella sua indifferenza nei confronti della storia, a quel suo adagiarsi in un eterno presente, mi viene in mente la crisi economica che stiamo vivendo, la frattura che si è creata tra economia finanziaria ed economia produttiva.
Il filosofo Maurizio Ferraris, ha elaborato il manifesto del “Nuovo realismo”, dove ha indicato una possibile via di uscita, la ricerca di un nuovo rapporto con la realtà. In opposizione all’interpretazione postmoderna della celebre frase di Nietzsche: «Non ci sono fatti, solo interpretazioni», che ha condizionato i nostri anni più recenti. Tra i tanti suoi saggi ne ricordo uno, scritto un paio di anni fa, dal titolo Ricostruire la decostruzione.⁴
“Ricostruire la decostruzione”, mi sembra una buona strada da seguire anche in arte. Per ricominciare a costruire delle forme. Non forme spettacolarmente distruttive come accade troppo spesso ancora oggi, ma forme che contengano l’esperienza preziosa della decostruzione novecentesca. Forme per così dire “sostenibili”, necessariamente plurali.

 

1. Giovanni Maria Accame, La forma plurale – Opere e artisti in Italia 1947 – 2000, Edizioni Charta, 2010.
2. Marc Augé, Straniero a me stesso, Bollati Boringhieri, 2011.
3. Testo tratto dalla prolusione di Noam Chomsky, tenutasi in occasione dell’inaugurazione dell’Anno accademico della Scuola superiore universitaria Iuss di Pavia, Domenica – Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2012.
4. Maurizio Ferraris, Ricostruire la decostruzione – Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Bompiani 2010.

*. Ho avuto il piacere di trovare conferma di questa mia piccola intuizione qualche mese dopo la stesura di questo testo, leggendo l’articolo di Jennifer Allen Rococo Conceptualism, pubblicato in Italia sul n. 37 della rivista Mousse Magazine, Febbraio-Marzo 2013.